La generazione delle macerie: un’intervista a Zerocalcare

L'ultima fatica di Zerocalcare e il racconto della generazione che ha vissuto direttamente la precarietà economica e sociale

IN BREVE  Chi: Zerocalcare  Cosa: intervista sul nuovo “Macerie prime, sei mesi dopo”, prima della presentazione bolognese Quando: 21 maggio 2018, ore 15 Dove: Libreria Feltrinelli, piazza Ravegnana 1 Bologna Costo: ingresso gratuito

Tutta colpa di Sorrentino. Perché mentre si legge il secondo volume di Macerie prime, Sei mesi dopo, che Zerocalcare ha licenziato da pochissimo per Bao publishing, non si può far a meno di pensare a Loro. I punti di aggancio non esistono: niente del regista sembra entrare a far parte di quanto racconta l’autore romano. Eppure, questa benedetta divisione in due macina dentro perché per i due lavori (quello cinematografico e quello fumettistico) si ripropone uno stesso procedere. La prima parte mette cioè in scena le premesse della storia, e trova sviluppo solo nella seconda parte. Volendo se ne può leggere o vedere solo una parte – non vi sono problemi di cliffhanger o simili – ma inevitabilmente mancherà qualcosa.

“Tieni conto che non ho ancora visto la seconda parte del film di Sorrentino, quindi non posso fare paragoni” mi dice Michele Rech, alias Zerocalcare. Lo raggiungo telefonicamente per qualche domanda, prima della data bolognese di lunedì 21 maggio, che lo vedrà incontrare il pubblico dalle ore 15 alla libreria Feltrinelli di Piazza Ravegnana.

Avrai davanti un’altra fila incredibile come a Torino. O come quella incredibile di Napoli: ben quattro ore…

“Quella che ha battuto i record è però stata Roma: ben dodici ore!”

Insomma, un continuo apprezzamento da parte del pubblico. Ma venendo a Macerie prime sei mesi dopo, perché hai deciso di farne un dittico?

“Ci sono varie ragioni. Una, editoriale. Nel senso che, mettere insieme quattrocento pagine rilegate con copertina rigida, ne avrebbe fatto un librone enorme. L’altra ragione è di tipo narrativo. Non so se fra la prima e la seconda parte di Loro ci sia o meno una pausa temporale, nel mio Macerie prime ci sono sei mesi che trascorrono. In questo spazio temporale i personaggi si perdono di vista, non si vedono e manco si parlano. Ci tenevo a che questi sei mesi trascorressero anche nella vita reale. Quindi avevo bisogno, proprio per me, per scrivere la seconda parte della storia, di seguire l’evolversi delle vite delle persone che ispirano i miei personaggi. In generale poi, volevo che il lettore avesse questo stacco emotivo, così che tutto non si esaurisse nel semplice voltare pagina o nel leggere una didascalia in cui si dichiara un passaggio temporale.”

Lo hai detto, nel libro in questi sei mesi tutto cambia per i personaggi: Cinghiale ha una figlioletta, per dire e non è poca cosa. Diciamo che tutti gli attori in scena subiscono una evoluzione, se non proprio una maturazione. Volevi questo?

“Sì, la storia serviva esattamente a questo. Nel senso che ho comunque a che fare con personaggi creati oramai molti anni fa, diciamo dieci, oltretutto sul blog. E sono “spuntati”, non sono più aggiornati con quella che è la vita. È così perché i miei amici, le persone a cui mi sono ispirato, sono cambiati, si sono evoluti, fanno altre cose… Avevo bisogno di raccontarlo in un libro che mettesse “a paro” le lancette del mio mondo narrativo-fumettistico con il mio mondo reale, in modo che possa ricominciare a raccontare quello che mi sta intorno, ma partendo da un nuovo status quo.”

Quindi è un libro di transizione. Ma con un pubblico che si è allargato a generazioni più giovani, riesci a rendere partecipi anche loro di un vissuto che appartiene alla tua di generazione? Riesci a condividerlo, a farlo comprendere?

“Certo, anche se portare tutto questo universo a una età più adulta è pur sempre una incognita, almeno rispetto al pubblico più giovane. Io non lo so quanto un pubblico di ragazzini, a cui magari piaceva quel che c’era su Zerocalcare.it perché forse ci ritrovavano delle tematiche in cui si potevano identificare, non lo so se con dei personaggi diventati più adulti, con altre problematiche, con dei figli, riescono ancora a trovarci qualche elemento di identificazione. Io proprio non lo so, però so che con quella roba là non riuscivo più a lavorare, quindi dovevo fare questo passaggio per forza.”

Credi che possa essere coinvolto da quanto racconti in Macerie prime? Il rischio che vedo è soprattutto quello di rimanere spettatori non partecipi, disincantati. Guardare senza che gliene importi molto.

“In realtà il pubblico che ho conosciuto in questi ultimi giorni, da quando è partito il tour di presentazioni, mi pare più piccolo di me come età, venticinquenni per la maggior parte. Quindi, hanno dieci anni di meno. Poi dipende da chi si mette a far la fila. Perché io ho una statistica basata su quelli che vengono a chiedermi il disegno, non su chi compra il mio libro in generale. Invece rispetto alla questione dello stare al balcone o meno, l’impressione è che la generazione mia un po’ di occasioni le ha mancate. Sì, non abbiamo sessant’anni, però è vero che delle cose che forse avremmo dovuto fa’, non le abbiamo fatte. E i miei trentacinque anni, oggi sono tanti per essere motore di cambiamento. Possono esserlo i ventenni, non più io. Quindi nutro grosse speranze nelle generazioni che seguono. Perché se un tipo di cambiamento riesci a farlo soltanto da giovane, beh, posso dire che la generazione mia non è che abbia inciso tanto.

Zerocalcare in questo Sei mesi dopo sembra diventare il simbolo di tutte le paure della sua (e tua) generazione e di una sorta di schizofrenia che la colpisce, attraverso il peso dei sensi di colpa l’attimo dopo trasformati in feroce cinismo. Al tuo alter ego capita con la scomparsa del personale grillo parlante, l’Armadillo, e con l’entrata di questo Panda, che tutto si può dire fuorché essere un animale gentile.

Penso che in un periodo di crisi, ognuno attraversi momenti di contraddizione. Quanto hai sottolineato, sono i due estremi che mi hanno legato in questi anni: non sapevo come gestire tutto quello che mi stava accadendo intorno. Quindi, da un lato ho avuto un grosso sentimento di mandare a quel paese tutti, perché ero soggetto a un sacco di pressioni. Dall’altro lato, ero carico di sensi di colpa e volontà di non tradire i miei valori e il mondo da cui provengo. Io non avevo una soluzione. Il buon senso direbbe di trovare un punto di equilibrio fra queste due pulsioni. Io, in verità, non l’ho trovato. E quello che racconto in Macerie prime diventa il mio cercare il punto di equilibrio, il mio capire quelle che sono le cose per me imprescindibili, ma non vuol dire aver trovato la soluzione.

Ho sempre visto nel tuo lavoro un idea di graphic jourmalism, per quanto molto romanzato. Cioè vedo la tua riflessione come parte di un giornalismo generazionale e politico. Il tuo lavoro si può avvicinare, almeno in parte, a questo modo di raccontare la realtà?

Allora, son troppo ignorante per parlare di cosa è il giornalismo. So che non esiste un giornalismo neutro, la mia idea ha una distanza dall’oggetto che racconta che a me non appartiene, non lo so fare e non mi interessa nemmeno il raccontare da distante. Cerco di farlo con il massimo della onestà intellettuale ma racconto solo le cose che mi appassionano scegliendo e dicendo esplicitamente il campo mio. L’ho fatto con Kobane così come quanto si parlava delle questioni dei nazisti in campagna elettorale e lo faccio anche quando racconto la compagnia che mi sta intorno. Perciò non mi metto a fare il reporter. Ci sono cose che mi stanno a cuore perché incrociano la mia biografia e le racconto perché penso sia giusto raccontarle in quel momento e in quel modo. Però sempre perché partono da qualcosa che c’entra con la mia vita e non altro.

Non intendevo questo, ma il giornalismo di chi vuole andare in determinate situazioni.

Ok, così ha più senso.

Perché mi sembra che il tuo lavoro sia questo, si indirizzi verso questo voler raccontare una parte della società e del mondo, partigianamente ma onestamente.

È una parola brutta ma è che io c’ho una parte… perché evoca, per come è stata utilizzata dai giornali, qualcosa di “ideologico” e “disonesto”. Però io c’ho una identità militante. Ci sono delle cose che faccio da militante, a seguito di assemblee e riunioni, di discussioni con altre persone quindi in questo senso ho difficoltà a definirmi giornalista. È un lavoro più collettivo. Ci si avvicina ma non è.

Per chiudere: cosa ci dobbiamo aspettare dopo questo dittico?

Lo ignoro proprio! Non c’entra nulla, ma a me piacerebbe imparare a fare cartoni animati. È una cosa che vorrei apprendere. Per il resto non lo so ancora. Ho come una nebulosa davanti a me.