Recensione de ‘Lo stupro di Lucrezia’

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A Teatri di Vita Malosti rilegge il dramma shakespeariano, ancora fortemente attuale

 

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Chi: Teatri di Vita
Cosa: recensione spettacolo “Lo stupro di Lucrezia”
Quando: 27 ottobre 2013
Dove: Teatri di Vita, via Emilia Ponente, 485
Info: sito di Teatri di Vita

di Cristian Tracà

 

Forte suggestione caravaggesca nelle sembianze e nel tripudio del nefasto carnale, controbilanciata da un repertorio più crime e pop: la messinscena de Lo stupro di Lucrezia per mano e per voce di Malosti

A Teatri di Vita Malosti rilegge il dramma shakespeariano, ancora fortemente attuale

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IN BREVE  Chi: Teatri di Vita  Cosa: recensione spettacolo “Lo stupro di Lucrezia”  Quando: 27 ottobre 2013  Dove: Teatri di Vita, via Emilia Ponente, 485  Info: sito di Teatri di Vita

 

di Cristian Tracà

 

Forte suggestione caravaggesca nelle sembianze e nel tripudio del nefasto carnale, controbilanciata da un repertorio più crime e pop: la messinscena de Lo stupro di Lucrezia per mano e per voce di Malosti convince la platea di Teatri di Vita. Lungo applauso per gli attori, chiamati ad una prova molto difficile, senza poter risparmiare niente di se stessi allo sguardo indiscreto dell’introspezione shakespeariana. Un testo che resiste ai secoli meravigliosamente e che parla di tematiche di genere con una lucidità ed un coraggio che lasciano a bocca aperta. Una piccola perla di repertorio che valeva la pena vedere nella programmazione di un Festival come Gender Bender che, tra polemiche e applausi, strappa ancora una volta il velo alla finta emancipazione sessuale della nostra civiltà.

Lucrezia subisce uno stupro con le stesse dinamiche in cui le terre venivano conquistate dall’ambizione dei soldati romani: è una donna del mondo antico a cui solo il corso dei secoli dà voce per gridare il dolore dell’equazione tra potere e lussuria, come se la progressione nelle alte sfere della società fosse automaticamente una carta passepartout senza limiti e vincoli. E’ una romana dell’età arcaica a cui Tarquinio il Superbo brucia la possibilità di essere donna e moglie ammirabile di uno dei suoi più fedeli servitori, quel Collatino che, proprio mentre si trova in battaglia, deve subire l’umiliazione della profanazione della sua casa.

Il testo ha una caratura così forte e spietata che la resa degli attori non può che arrendersi davanti al limite fisico dell’evocazione e dell’imitazione. Tutto concorre per suggerire il delirio del desiderio e della carnalità, ma il rischio del manierismo erotico è sempre dietro l’angolo. Jacopo Squizzato deve fare i conti con un personaggio enorme: il suo impatto sulla scena è forte ma il centro della ribalta è tutta per la figura femminile violata, che valica nel breve corso della scena la parabola da vittima a testimone a vendicatrice.

Non convincono del tutto alcuni dettagli, o risultano quasi fin troppo prevedibili: il latte che irrora le fauci fameliche dello stupratore, quasi come nel celebre macellaio filmico, il manichino – cadavere che dovrebbe potenziare il distacco tra corpo e anima dopo la violenza ma che invece ha una coloritura quasi straniante, per non dire parodica.

Narrativamente molto azzeccata la scansione dello sfogo – confessione con i tratti e con i suoni della macchina da scrivere: come tutte le donne segnate a fuoco dal marchio della profanazione, non solo il dolore iniziale ma il continuo girare il coltello nella piaga, anche a distanza di anni, con gli interrogatori e i processi inquisitori, con la serie di incognite sui possibili risvolti di incertezza e di accusa che si costruiscono attorno alla prigione della parola e dell’indicazione deittica della colpa.

Alice Spisa con le sue lacrime a chiusura di sipario dimostra quanto è difficile mantenere intensa la propria performance all’interno di un testo che è un continuo profluvio di silenzi e grida di una drammaticità eccezionale, proprio per questo contrasto tra possibilità di parola e rivendicazione di potere. Sempre sullo sfondo la relazione tra scettro e dittatura fallocratica.

Parola negata ad esempio ad eroine mute come Ecuba che conosciamo solo tramite narrazioni indirette e che sono rimaste impresse come emblemi del dolore, in un’equazione tra presa di parola e possibilità di rappresentanza tutt’altro che scontata oggi.

15 ottobre 2013

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