To stay alive e altre notevoli visioni dal Biografilm

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Tra Iggy pop e il parkour, tre film che riscrivono il concetto di arte e di artista

 

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Cosa: uno sguardo su tre film del Biografilm Festival: To Stay alive, Être e durer, I am not alone anyway 
Dove: Biografilm Festival, in replica in vari cinema di Bologna 
Quando: da venerdì 9 a lunedì 19 giugno 2017 Info: biografilm.it

di Sergio Rotino

 

A nostro sindacabilissimo parere, ci sono due film che spiccano nella ricchissima offerta della tredicesima edizione del Biografilm,…

Tra Iggy pop e il parkour, tre film che riscrivono il concetto di arte e di artista

 

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IN BREVE Cosa: Uno sguardo su tre film del Biografilm Festival: To Stay alive, Être e durer, I am not alone anyway Dove: Al Biografilm, e in replica in vari cinema di Bologna Quando: da venerdì 9 a lunedì 19 giugno 2017 Info: biografilm.it

 

di Sergio Rotino

 

A nostro sindacabilissimo parere, ci sono due film che spiccano nella ricchissima offerta della tredicesima edizione del Biografilm, che si tiene a Bologna fino al 19 giugno. Il primo è Manifesto, del regista Julian Rosefeldt, con una impareggiabile, multiforme Cate Blanchett, di cui vi parliamo qui. Il secondo è To stay alive: a method, di Arno Hagers, Erik Lieshout, Reinier van Brummelen. Se Manifesto lo trovate nella sezione “Biografilm art” (ultima replica sabato 17, cinema Arlecchino, ore 16.30), To stay alive è nel “Concorso nazionale” (peccato, finite le repliche). Due prodotti complessi, artisticamente e intellettualmente, che però lasciano il segno nello spettatore con la loro feroce oscurità. Da sottolineare come entrambi scrivano e sovrascrivano, partendo da ipotesi fra loro apparentemente lontanissime, il concetto di arte e di artista, il suo essere nel mondo in opposizione a esso eppure sotto il suo schiaffo.

È di questo, fra le altre cose, che parla To stay alive. Non un film su Iggy Pop, sia detto subito, ma un film sulla resistenza che l’arte e l’artista devono avere dentro il mondo passando attraverso qualcosa di simile a una premorte, un abbandono, una perdita, per accettare il proprio ruolo: infilare “il dito nella ferita della società e spingerlo al fondo in maniera dolorosa”.
Dell’immarcescibile Iguana del rock lo spettatore avrà il corpo, non la musica, a parte pochissimi quanto brevissimi estratti. Avrà soprattutto la voce e le sue parole, che non sono sue, ma di Michel Houellebecq, e che pure lo possiedono interamente. Per capire quanto si sta dicendo, bisogna sapere come i due artisti si stimino da tempo. Iggy ha oltretutto trovato nei testi di Houellebecq rimandi alla sua biografia. Ma la sintonia esplode in tutta la sua forza con la lettura di Rester vivant, saggio dello scrittore francese del 1991, tradotto in Italia come Restare vivi e contenuto ne La ricerca della felicità (Bompiani). Houllebecq in quelle pagine ragiona attorno al ruolo degli artisti, a quello del poeta nella società e a tutti coloro che soffrono di problemi legati con la sfera psichica. Iggy vi ritrova in special modo i motivi per cui scriva determinate canzoni, quelle che definisce come “non sequitur”. Quelle che, come lui stesso afferma, hanno il significato che dai loro, e basta. Per esempio Open up and bleed oppure I want to go to the beach, canticchiata a inizio di documentario e inclusa nell’album Preliminaries, profondamente segnato dalla lettura de La possibilità di un’isola, romanzo sempre di Houellebecq.

Attorno alla voce e alla faccia del rocker americano, che spessissimo punta lo sguardo in camera come a cercare un dialogo intimo con lo spettatore, ruotano le parole e le storie di un piccolo manipolo di persone, che lottano per estrarre da sé la propria arte e buttarla oltre il muro dell’insanità mentale. Vere o inventate che siano, nel loro essere catturate attraverso interviste e monologhi, raccontano storie di una cruda fragilità, che sempre rimandano a quanto afferma la voce di Iggy e il pensiero di Michel: «To learn how to become a poet, is to unlearn how to live».

Ottima in queste giornate festivaliere la qualità delle proposte italiane. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma sicuramente bisogna prestare molta attenzione almeno a due titoli.

Il primo è una produzione pienamente bolognese, che guarda al mondo dei traceurs e della disciplina del parkour partendo da una storia bio e autobiografica. È quanto racconta in estrema sintesi Être e durer, scritto e diretto da Serena Mignani. Un docufilm appunto su parkour e freerunning, ma “as seen by a mum”, come recita la locandina.

È infatti lo sguardo di una madre, quello della stessa regista, a informare su questa forma di relazione fisica con la città. Una madre che segue il proprio figlio nelle sue scorribande fra muri delle scuole, centro fieristico o quant’altro, interessandosi delle motivazioni che spingono sempre più ragazzi a cimentarsi in questa attività ginnica. E sarà proprio la madre, dopo un evento luttuoso, a decidere di girare il mondo alla ricerca di quelle che possono esser definite come le “motivazioni filosofiche” sottese a questo modo di agire la città nei suoi elementi urbani.

A mano a mano che il discorso progredisce è chiaro come Être e durer sia un lascito che la madre fa al figlio, trovandosene ricambiata. Essere e sopravvivere è infatti la traduzione letterale del titolo. Dove al figlio è data la capacità di essere e alla madre quello del sopravvivere, del comprendere.

«Premetto che il titolo è un motto preso in prestito dai traceur francesi. In realtà sì, io lo definisco un film di formazione per i genitori. Un film attraverso cui i genitori possono imparare a sopravvivere alle adolescenze un po’ turbolente dei figli e comunque imparare a sopravvivere al lasciarli andare».

Il film monta le dichiarazioni di varie star del parkour e del freerunning ai commenti autobiografici di Silvia Mignani, anche voce narrante,dando corpo a una narrazione che esce fuori dai confini delle tradizionali dimostrazioni acrobatiche cui spesso viene legata acriticamente questa disciplina. Sorprende però come i personaggi siano sempre le madri, in veste di coach e promotrici, e i figli (maschi), in quelle di atleti. La figura del padre sembra praticamente assente in questo mondo.

«Ragazze traceur ce ne sono ancora poche» dice Mignani, aggiungendo che «il film non è venuto per una scelta di campo. È venuto fuori naturalmente. Io ho raccontato la mia esperienza di donna, di madre, e le persone che mi son trovata vicine erano fidanzate, madri, nonne. Tutta quella parte di umanità che si prende cura dell’altro. Probabilmente i padri si occupano di altri aspetti. Però chi si prende cura dell’altro, di guardarlo con meraviglia e passione, di esser lì se qualcosa accade, di rispettare anche la passione che si esprime in queste forme, il dolore e la rinuncia, sono le donne. E solo un film di donne poteva essere».

Un vero monumento alla figura di una donna, di una storica dell’arte, volutamente senza contraddittorio, è la prima prova registica di Veronica Santi. Toscana, residente a New York da tempo, ha speso i 75 minuti di I am not alone anyway per raccontare con precisione vita e opere, intuizioni e proiezioni nel campo delle nuove tendenze delle arti figurative che Francesca Alinovi ha avuto nel breve lasso di tempo in cui è stata attiva da Bologna verso il resto del mondo, come ricercatrice DAMS e organizzatrice. Il film trasuda di amore per tutto quello che Alinovi ha prodotto, tanto da far affermare alla regista come il suo intento sia di “ridonare vita” alla figura di questa donna, per lei (e non solo per lei) così importante nel panorama delle arti.

Una attività quella della Alinovi che viene registrata lungo il documentario sottolineandone il continuo fermento, guidato da un acume e dalla capacità di lavorare modernamente sulle connesioni fra le arti oltre che di restituire le intuizioni in una lingua anti-accademica, capace di sposare la comunicatività e abbandonare l’esoterismo dei termini.

Sulla tragica fine toccata a questa donna – una delle “promesse” della critica d’arte, come veniva definita all’epoca – che oggi avrebbe poco meno di settant’anni e dei cui scritti teorici si sono perse le tracce, cancellate da una dissennata politica editoriale, Santi si trattiene pochissimo.
«Vi prego di raccontare di quanto si parla nel film e di tralasciare quello di cui non si parla» è stata la richiesta specifica della regista ai giornalisti.

Il documentario quindi prende in considerazione esclusivamente il lavoro della Alinovi. A sostenere l’impianto, le interviste ad amici e artisti con cui era entrata in contatto, di cui aveva scritto, evitando accuratamente l’inutile morbosità su di una morte assurdamente dentro schemi tardoromantici.

È questo che I am not alone anyway fa. Ricostruisce l’esperienza di una ragazza che da Piacenza si sposta a Bologna per frequentare l’università durante gli anni Sessanta e che qui accoglie, fa proprie, per poi rielaborare in maniera originale le spinte artistiche innovative che fino agli anni Ottanta si affacciano sul panorama nazionale e internazionale. Di più, Alinovi va a caccia delle novità, spostandosi per un certo periodo dall’Italia alla vitale New York della Street art – e il suo lavoro è legato indissolubilmente a questa corrente artistica. Lì conosce, frequenta e valorizza artisti del calibro di Keith Haring (se ne sente la voce che elogia la ricercatrice in una rarissima registrazione privata), Daze, Toxic, CRASH e molti altri. È un lavoro di connessione il suo, svolto tracciando un percorso innovativo, valido ancora oggi. Luigi Ontani, uno fra i nomi di spicco nel panorama artistico, ne parla come di «un campione speciale di osservazione, il cui sguardo era uno sguardo di curiosità intenso, esplorativo».

«È una figura che dovrebbe ritornare all’interno del panorama internazionale» afferma Vitali. «Essendo l’unica donna che ha fatto un certo tipo di ricerca in quel periodo, estremamente importante per la nostra cultura e la nostra storia intellettuale».

Il film è costato cinque anni di lavoro, considerando anche i venti minuti del corto prodotto nel 2013. Verrà proiettato ancora il 17 giugno alle 21 (Europa cinema) e il 19 giugno alle 16 (cinema Jolly) per poi tentare le vie di altri festival e della distribuzione tradizionale attraverso I Wonder. Vitali alterna nel montaggio le interviste al flusso del poco materiale d’epoca rintracciabile sulla Alinovi. Bellissima resta però la traccia in audiocassetta finora inedita, ritrovata fra i materiali di proprietà della sorella Brenna. Lì la voce di Francesca Alinovi detta le linee della sua idea di arte e non solo. Parole che rimandano a una delle poche foto di questa studiosa, quella in cui stringe il registratore a cassette per il manico come fosse un borsello. Proiezione verso un futuro che è il nostro, verrebbe da dire, ma che il suo sguardo attento sembrava aver già ipotizzato.

14 giugno 2017

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