Biografilm 2018: La grande onda della fiction non convince

Luci e ombre di alcune pellicole presentate durante il Festival

IN BREVE Cosa: La fiction nella sezione Biografilm Europa, pro e contro Info: biografilm.it immagine: Storie del Dormiveglia

Non si poteva vedere tutto. E così è stato. Abbiamo perso alcune preziose proiezioni e vari eventi del Biografilm 2018, perché banalmente abbiamo deciso di vederne altri, oppure perché ci siamo fatti irretire da alcuni titoli e da alcune proposte.

Per esempio, ci ha incuriosito questo massiccio presentarsi, via beneplacito del direttore artistico Andrea Romeo, della fiction. Che si è visibilmente espansa rispetto ad altre edizioni del Biografilm, offrendo alcuni titoli interessanti per idee, meno per realizzazione e sceneggiatura, specie nella sezione Biografilm Europa.

Sempre escludendo per inappellabilità Diamantino (di cui ha scritto Giuseppe Marino qui), mandato al disastro dalla sceneggiatura e dalla coppia registica Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt. Fortunatamente come narrazione sportiva gli si è contrapposto il lavoro di Javier Fesser, Campeones. Nulla di nuovo anche qua, almeno se negli occhi avete tutto lo stuolo di pellicole statunitensi su questo argomento, prodotte nei decenni e che avevano come focus disadattati e/o disabili di vario tipo. Diciamo che Fesser riesce a darcene una interpretazione personale, godibile e plausibile, e fuori dalle frontiere del semplice intrattenimento narrativo.

Problemi di “fretta” presenta invece il pur ottimo Le brio, dove la sempre più brava Camélia Giordana interpreta la banlieusina Neïla alle prese con il ruvido, provocatorio professor Pierre Mazard, un Daniel Auteuil tenuto un po’ troppo a freno, in quella che dovrebbe essere una commedia brillante sul riscatto sociale del proletariato francese. Peccato che Attal paia non crederci tanto. Sceneggiatura e montaggio sforbiciano selvaggiamente le motivazioni che portano il professore a educare Neïla nell’eloquio, così da vincere un concorso fra varie università; ne attenuano e velocizzano così lo scontro fra culture e pensiero, scegliendo la linea di minor attrito possibile per arrivare al lieto fine.

Per dire: il regista francese va a scheggia laddove Denzel Washington, nel biografico The great debater, aveva dosato ritmi e tensioni in modo classico ma ineccepibile. D’accordo, siamo nel campo della commedia lì era dramma, però dieci minuti in più avrebbero consentito a questo titolo di dispiegare meglio le sue possibilità. Al film comunque non poteva non andare l’Audience Award, il premio del pubblico, come miglior film del Contemporary Life.

Compitino alto, ottimo nella messa in scena e nella fotografia, ma algido nel dare lo spaccato dei personaggi, il trasformarsi o restare coerenti alle loro scelte, è il remake di Papillon, film diretto nel1973 da Franklin Schaffner con Steve McQueen e Dustin Hoffman. Michael Noer lavora registicamente soprattutto sulla superficie, lasciando che a interpretare i pensieri come gli stati d’animo dei due protagonisti principali siano gli spettatori, spinge perciò sul pedale dell’avventura sfrondando il film dal resto. Alla fine non si percepisce più l’aura romantica dell’originale, ma una trattenuta tensione sessuale fra Papillon e Louis, che devia lo spettatore dal centro esatto del racconto. Charlie Hunnan riprende il lavoro di McQueen con il risultato di apparire innaturale, mentre Rami Malek appare troppo “pettinato” per competere con Hoffman. Ma sopra ogni cosa, il film soffre del problema di molti prodotti cinematografici odierni: una eccessiva waltdisneyzzazione, che permette di andare a strascico raccogliendo ogni tipo di pubblico. Insomma, un prodotto per famiglie (di qualsivoglia genere), tragicamente. Ciò vuol dire che non vale la pena? Assolutamente no. Tenetene però conto, prima di staccare il biglietto.

Per quanto sempre il nostro Giuseppe Marino abbia mosso alcune riserve all’ultimo film di Yorgos Lanthimos, Il sacrificio del cervo sacro è uno dei prodotti più alti, intensi e belli che Biografilm abbia proposto nell’ambito delle giornate festivaliere. Tragedia greca dichiarata fin da subito si somma alla critica verso la famiglia borghese contemporanea, verso le sue (mal)celate ipocrisie ne Il sacrificio del cervo sacro, che si mostra prodotto capace di annichilire con la sua tesi. Claustrofobico, rarefatto, preciso nell’alternare luoghi dove la luce taglia come in alcune pellicole kubrickiane (e il maestro inglese è ben presente nella messa in scena di Lanthimos) ad altri dove l’ombra annienta anche il chiarore delle lampade, il film appare il più autoriale fra quelli inseriti nella sezione Europa. Di sicuro è un film eccezionale – che fa eccezione, anche – dove gli attori disseccano le loro interpretazioni a beneficio dell’insieme, del risultato finale. Volete chiamarlo thriller psicologico? Fatelo. Ma è molto, molto di più.

Sempre all’interno di Biografilm Europa, un premio meritatissimo (e forse ne avrebbe meritati anche altri), il CITEM Award, è andato a Mug, film polacco di Malgorzata Szumowska. Nella motivazione data si parla della rappresentazione «ai margini dell’inquadratura, dell’ipocrisia, del conformismo e dell’intolleranza insiti in una piccola comunità rurale polacca». Szumowska parte da un accadimento straordinario, che coinvolge il protagonista Jacek, portandolo al trapianto totale del viso, con conseguenze sempre più fuori registro all’interno della sua enclave. Il film ha un dosaggio imperfetto nelle sue varie parti, ma crea una tensione emotiva provata raramente. Cosa che, per dire, non capita al relativamente disturbante Touch me not di Adina Pintilie, cui nuoce in questo forse anche l’estrema lunghezza.

Sorprende e invoglia a una nuova visione, più attenta, lo storico Les Gardiennes del francese Xavier Beauvois, ambientato in Francia all’interno di una comunità forzatamente al femminile, causa scoppio della Prima guerra mondiale. Un bellissimo ritratto di donne che “ce la fanno da sole” con orgoglio e massima dignità. Questo accade nella fattoria Paridiennes, dove le donne lavorano i campi, attendono i loro uomini in licenza, vanno ad accudire il bestiame. Beauvois usa la camera in maniera pittorica quando si sofferma sui volti, su certe inquadrature quasi vuote, ma bilancia questo ritmo in certi punti forse troppo allentato, con una descrizione molto americana della fattoria e dei lavori al suo interno. Verrebbe da definirlo epicorurale, senza ironie di sorta. Comunque, per quanto mainstream, è un’opera alta, perfettamente composta.

Due parole bisogna spenderle però sull’evento speciale Ocean’s 8, di Gary Ross. Che dire. Fare l’eco ai tre Ocean’s di Steven Soderbergh, a loro volta recupero del materiale originale di Lewis Milestone, con uno spin off più che con un sequel non si capisce che senso abbia. Ma in epoca di serialità avanzata, tutto fa brodo, tutto può funzionare. E l’idea di sostituire ai maschietti un combo di otto donne, non è da buttar via. Peccato che, via via si va avanti nella visione del film, si faccia presente la domanda: perché sprecare così un bel cast? Ci sta tutta che la fidanzatina d’America Sandra Bullock faccia la parte di Debbie, sorella di Danny Ocean. Rihanna rientra benissimo nel ruolo della hacker Ball Nine, ruvida e bulla. Ma lo spreco di Cate Blanchett, il ridurre a macchietta (ok, se lo cerca lei) di Helena Bonham Carter, l’insipienza cui si spinge Anne Hathaway nei panni stereotipi dell’attrice Daphne Kluger, quale senso possiamo dar loro? Tralasciando ovviamente le interpretazioni di Mindy Kaling, Sarah Paulson e Awkwafina. No perché la storia è pura reiterazione e riassunto delle puntate precedenti: nulla di nuovo, nulla di sorprendente. E pochissime anche le battute, che ridere non fanno.

Un film proto-para femminista e non ce ne siamo resi conto? È questo Ocean’s 8? Un film in cui le donne “do it better” perché se “un lui viene notato, una lei no”? Forse è così, è un dichiarare che i tempi cambiano e la rivincita delle donne è iniziata, anche nel campo dei film d’azione e dei thriller. Ci sta bene, però. Però bisogna farle agire, metterle davanti a difficoltà. Cosa che nel film non capita. La mano registica di Ross appare molle, senza capacità ideative che facciano gioire per le abilità singole e sororali di questo combo femminile. Più che una pellicola per qui esclamare wow, si sarebbe tentati di pronunciare il classico universitario del “Torni alla prossima sessione, dopo che avrà studiato meglio il programma”.

Intimo, poeticamente vicino per espressa dichiarazione del regista Luca Magi ad Andrej Tarkowskij è Storie del dormiveglia. Film girato nel Rostom di Bologna, centro di accoglienza notturna per i senza fissa dimora gestito da Piazza Grande e imbucato nell’estrema periferia, tanto per tornare a citare il decreto Minniti e la falsa idea di “decoro” che oramai da più lustri si sta spandendo per l’Italia con effetti devastanti.

Ma il film di Magi, anche illustratore e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, non ha a che vedere con la politica. È invece il racconto sentito di quelli (solo alcuni) che vivono la propria esistenza ai margini della civiltà, o di chi da questo centro di accoglienza cerca una strada per recuperare se stesso. È un piccolo coro di voci che si alternano a raccontarsi, soprattutto durante la notte, guidate, collegate fra loro dai pensieri dell’inglese David, narratore e presenza lui stesso nel Rostom. La macchina da presa lavora per inquadrature quasi sempre fisse, creando come dei quadri. Spesso insiste sui volti, da distanze cortesi, non invasive, cercando di carezzare la ruvidezza di chi ha davanti, di non intaccare la fragilità dell’incontro. Magi crea così facendo un film estremamente poetico, che proprio dai volti estrae la crudeltà cui sono stati sottoposti i suoi attori dalla vita, ma accrescendo la loro umanità, la loro interiore, pasoliniana, bellezza. Meritatissimo il premio Biografilm Italia consegnato a Magi «per la sua profonda consapevolezza del mezzo cinematografico e il suo forte punto di vista. Per l’abilità di trasferire su tela la visione del regista, utilizzando un linguaggio visivo unico.»

E dal Biografilm 2018 è tutto, ma non lo è.

Ricordiamo infatti che il 25 giugno alle 21 presso il Medica palace di via Monte Grappa vi sarà l’ultima anteprima del Festival. Verrà proiettato Museo, di Alonso Ruizpalacios, “replica” del furto avvenuto il 24 dicembre 1985 di varie opere d’arte nel Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Il furto avviene per mano di due studenti, interpretati nel film da Gael Garcìa Bernal e Leonardo Ortizgris.