Funeralopolis. A Suburban portrait

Un documentario crudo che racconta una storia di tossicodipendenza, senza fare sconti a nessuno.

Funeralopolis

Avvertenza: l’articolo contiene anticipazioni sul finale

Cosa: recensione di Funeralopolis Info: http://www.funeralopolis.it/

Dopo il sold out di dicembre, lunedì sera (lunedì 22 gennaio) il cinema Kinodromo ha organizzato una seconda proiezione di “Funeralopolis. A Suburban portrait” di Alessandro Redaelli, che proprio a Bologna, nell’ambito del Biografilm Festival del 2017, aveva visto il suo esordio.

Funeralopolis potrebbe sembrare la riedizione meneghina in bianco e nero del più colorato e romano Non essere cattivo; persino nei visi dei due amici protagonisti, Vash e Felce, si adombra una certa somiglianza con gli attori Luca Marinelli e Alessandro Borghi.
Si potrebbe cercare il parallelismo in molti dettagli, se non fosse che quella di Caligari è un’opera di fiction, mentre il primo è un documentario.

Andando con ordine: Alessandro Redaelli (regia e riprese), coadiuvato da Ruggero Melis e Daniele Fagone per il montaggio e lo story editing, ha seguito per un anno e mezzo le vite beffarde di Vash e Felce, la cui amicizia si forma a partire dalla passione comune per la musica horrorcore e l’esoterismo. Il prodotto è un documentario di osservazione di un’ora e mezza circa, in bianco e nero, nel formato 1,66:1, schiacciato e un po’ angusto.

Funeralopolis, con la sua storia tutt’altro che rinfrancante, è in concorso ai David di Donatello come miglior documentario, in compagnia di mostri sacri della pellicola come Nanni Moretti [Santiago, Italia], Silvio Soldini [Treno di parole] e Roberto Minervini [What you gonna do when the world’s on fire?].

Vash e Felce sono cresciuti a Bresso, nella periferia milanese, tra case popolari, appartamenti occupati e aspettative tutt’altro che rosee per il futuro. I due percorsi di vita di partenza, tra loro piuttosto diversi, vengono assorbiti da un violento moto centripeto fatto di rave, concerti, riti satanici, paesaggi post-industriali, spaccio e siringhe. Il vortice li cattura entrambi e annoda le loro biografie, ma sul finale della narrazione si prefigurano destini divisi.

La mano di Redaelli come primo operatore di macchina è sempre ben visibile: zoomma, fa un uso ridondante di primissimi piani, particolari e dettagli, la visione è immersiva e il regista vive sulla (e della) pelle dei due ragazzi. Lo sguardo alla vicenda è vicinissimo e non filtrato, e alcune scene risultano piuttosto difficili da digerire, come quelle girate con lo smartphone nel parco vicino la stazione di Rogoredo. I due amici manipolano la ripresa fatta dalla telecamera in modo performativo, a mo’ di tribuna e confessionale, mostrando senza pudori o reticenze i buchi, le porte sfondate, i malesseri fisici annidati nella tossicodipendenza.
Vash e Felce, dunque, ritratti come coppia d’acciaio, due amici che non si perderanno mai, che resistono insieme alle angherie dell’esistenza. Invece non va proprio così.

Se si segue la suggestione che per un tossicodipendente l’eroina “inghiotte” il reale e ne assume i contorni, è facile capire come Felce sia protagonista fino a un certo punto, mentre Vash lo è fino in fondo.

Il turning point appare verso la fine del film, quasi in ritardo: in questa fase il montaggio si allinea cronologicamente con la narrazione, e guardiamo Felce andare nei boschi con fucile e trappole, a ricercare la vita nuda e selvaggia, a stare in mezzo a quelli che lui chiama i suoi simili. Sotterra iconicamente la siringa ancora sporca del suo sangue e si lascia riprendere nel suo nuovo habitat.

Come racconta Alessandro Redaelli, il regista:
«[…] Abbiamo deciso di scrivere il film mentre lo montavamo, dandogli una struttura e cercando di capire quali potessero essere i finali. Quando ho finito di girare, gli abbiamo dato una chiusa con una struttura narrativa precisa, anche se il film non è tutto in ordine cronologico».

E se, in questa chiusa l’ultima immagine di Felce risponde a una pur bizzarra simbologia di redenzione – lui, disteso e appagato in mezzo a un bosco – , la discesa verso gli inferi di Vash non finisce: le riprese si interrompono nel mezzo dell’ennesima siringa in macchina, mentre l’audio continua e inonda i titoli di coda. Non c’è salvezza, non c’è ripensamento, non c’è – banalmente – un’alternativa alla sua vita, come non esiste una scena del documentario in cui vengono aperte le porte alla spiegazione.

Le droghe – ma in modo particolare l’eroina – inghiottiscono la vita e il quotidiano: alla tossicodipendenza non viene chiesto l’inizio, la fine, il perché del suo esserci. Non esiste didattica o passaggio esplicativo in questo documentario che arde, brucia e si consuma fotogramma dopo fotogramma, dove spesso il ritmo incalzante viene spezzato con schermate di puro nero.
Un nero ellittico che sottolinea la mancanza di volontà di mettersi a disposizione dello spettatore e che non pretende in nessun passaggio che la pellicola rappresenti qualcosa se non sé stessa.
Funeralopolis è il ritratto di una vita: ribollente, disordinata e incredibilmente vera, e proprio per questo non campionabile.