The Mule: Eastwood racconta, sul filo della commedia, la trasformazione della società americana

Un anziano corriere della droga, ex floricoltore, alle prese con la contemporaneità

IN BREVE Cosa: Il Corriere – The Mule, una recensione Regista: Clint Eastwood Protagonisti: Clint Eastwood, Bradley Cooper Dove: al cinema

Avvertenza. Qui non si parla di premi Oscar, ma di un film che al botteghino ha tenuto testa a molte delle pellicole premiate nella notte delle statuette similoro. Non poteva essere altrimenti per Il Corriere – The mule, ultimo lavoro di Clint Eastwood in veste di regista e di attore. Una pellicola che non sarebbe mai rientrata fra quelle premiate perché moralmente scorretta nel suo raccontare “una storia vera”, sì, ma non elegiaca come può essere quella alla base di Green Book.

E quindi, com’è questo ultimo, ottuagenario Clint Eastwood? Buono, molto più che buono, quasi un capolavoro, capace di mangiarsi a colazione molti prodotti simili, almeno a livello di script, di sceneggiatura con base realistica (e si ritorna al succitato titolo da Oscar). Non c’è che dire: avere il senso della misura permette di creare un film dove il quotidiano può virare verso lo strambo. Ancora di più: un film dove una spolverata di cinismo consente di mettere in scena una situazione drammatica nei modi tipici di certe commedie sobrie, dai toni smorzati, dove le tensioni vengono lasciate ai margini, come pretesto o come contesto, come tratteggio del carattere avvicina il personaggio di finzione alla figura reale.

La prima volta, seduto faccia contro lo schermo, nella sala Biografilm ben imbottita di spettatori, il film si è dipanato senza forzature, raccontando del novantenne Earl Stone, corriere della droga per necessità, ma anche per guasconeria senile. La seconda volta, la guasconeria si è stemperata, lasciando trasparire una trama che va avanti quasi a canovaccio, come volesse permettere a Eastwood di improvvisare su alcune situazioni. Ma è solo un quasi. Perché quello che risalta è, ancora una volta, la forza stringente di una sceneggiatura veramente “di altri tempi”, tesa a raccontare, sobriamente ma con precisione, la storia di cui si fa carico. Non per nulla, al fianco del texano dagli occhi di ghiaccio torna Nick Schenk, lo stesso a cui si deve buona parte della riuscita di Gran Torino nel 2008. Qualcuno potrebbe obiettare che fra le due opere corrono dieci anni e uno svilimento della figura dell’anziano. Ora quanto mostrava in quella pellicola è ridotto a macchietta; il suo borbottare su ogni possibile mutamento sociale in cui ravvisi una contraddizione rispetto ai suoi tempi e al suo pensiero, si scontra con il tornaconto di cui può giovarsi, perdendo la sua dolente epicità.

In realtà The Mule alleggerisce sì il tratteggio sul suo Earl Stone, cowboy fuori tempo massimo, ma per proiettarlo senza imbarazzi di sorta nel cinismo che lo ha sempre contraddistinto. Come floricoltore Earl ha ostinatamente anteposto il lavoro alla famiglia, che giustamente lo odia (bello aver fatto interpretate Iris, figlia di Stone, ad Alice, figlia di Eastwood: un vero memento). Ora antepone la sua dirittura morale alla necessità materiale. Se questo non è una immagine puntuale della società odierna, poco ci manca.
Grazie a Schenk, Eastwood-Stone sposta il suo ragionamento da un’epica destrorsa, basata sul risentimento per aprirsi successivamente una forma di parziale redenzione con accenti di puro romanticismo, a un ragionamento quasi anarchico, sicuramente cinico. Come lo è il mondo contemporaneo. Il suo fare comunella con alcuni dei soldati di un cartello della droga, fin quasi a trattarli come buoni conoscenti, è un tratto ironico, ma anche un esplicare quel che oggi si è: un aver allentato le distanze fra lecito e illecito, fra quel che è bene per noi e quel che è male per tutti gli altri.

Riportare sullo schermo la storia di Leo Sharp, l’ultra ottuagenario corriere per il Cartello di Sinaloa, non è una blanda presa in giro (per incapacità di regia e sceneggiatura) della senilità, con il suo allentare i freni inibitori e morali. In realtà The Mule racconta la fallacia dell’essere umano rispetto al suo credo, immergendo la vecchiezza in un mondo dove l’apparenza inganna (come nel dialogo con il gruppo di biker lesbiche) e dove l’apparenza è unicamente superficie, ma non cambia le cose nel profondo (dire “nero” al posto di “negro”). La società americana è indubbiamente dentro una spinta che la trasforma e la aliena a Stone, però non arriva a toccare i nervi profondi del suo stesso esistere. E qui il western (e la filosofia tutta americana del paese delle possibilità) torna a farsi sentire. Delinquere è una possibilità, come fare film. Dov’è il male nell’aver fatto prima il floricoltore e poi il corriere della droga, se vediamo tutto questo attraverso la lente dell’aver successo in un mondo ostile? E la fissità nello sguardo di Bradley Cooper (toh, un quasi Oscar) non si può leggere come la stessa incapacità delle istituzioni a comprendere cosa accade nella nazione e a saperla gestire?

Eastwood sa bene dove posizionare la macchina da presa, impresse nella mente le soluzioni narrative dei western cui ha partecipato; quando recita da vecchietto, sa di esserlo e lavora di sottrazione per dare una credibilità ai suoi movimenti, alle sue battute. Insomma, The Mule è un buon romanzo per immagini, dove scene e sequenze vengono offerte senza sbavature. Un romanzo di cui ci si ricorderà a lungo e con piacere, senza per questo inserirlo nella prima fila della libreria. Perché, e bisogna ammetterlo, non ha lo stesso polso né la stessa grana di Gran Torino o di Un Mondo Perfetto. Quelli erano capolavori narrativi metaforici sul declino e sulla senescenza. Qui siamo sul filo della commedia, immersi in una quotidianità quasi irredimibile, che ci passa davanti senza guardarci. Per questo il misfatto, il crimine appare cosa tanto normale e non acquista epicità. Si sbarca il lunario diventando corrieri di un cartello della droga, quasi per gioco. Il rischio è altrove, così come il dramma “modello crime story” o quasi, comunque non al centro della pellicola. Non lo è nemmeno quando Stone è al capezzale della ex moglie (una Dianne Wiest non-perfettamente-a-suo-agio), non lo è mai. Atteggiamento proprio di chi vive dentro l’universo contemporaneo: sempre spostato altrove, mai perfettamente presente a quanto compie a quanto avviene, mai capace di cogliere il senso esatto delle proprie azioni.