Visioni Italiane, Visioni Doc: la realtà è servita

Famiglia, identità, viaggio, memoria, corpo sono i temi dei film ospitati nella selezione non fiction del festival Visioni Italiane

IN BREVE Cosa: Le storie di Visioni Doc, sezione del festival Visioni Italiane 2019 Dove: Cineteca di Bologna Immagine: The fifth point of the compass Info: cinetecadibologna.it/visioni_italiane_2019

“Visioni Doc” è la sezione dedicata al film documentario dell’ormai celebre “Visioni Italiane – Festival degli esordi”, festival giunto alla sua 25esima edizione sotto la direzione di Anna de Martino e promosso dalla Cineteca di Bologna. Oltre al premio dedicato alla regia documentaristica, nella settimana di eventi e proiezioni c’è spazio per visionare lo stato dell’arte del cortometraggio con “Visioni Italiane”, le due sezioni tematiche “Visioni Ambientali” e “Visioni Acquatiche”, e un focus sulla vivace produzione dei registi sardi, “Visioni Sarde”. La sezione dei documentari si caratterizza per l’eterogeneità, sia di formato che di lunghezza, delle 12 proposte in gara.

“The fifth point of the compass” di M. Prinoth vince il premio della giuria, due menzioni speciali vanno a “Non è amore questo” di T. Sala e “Le Vietnam sera libre” di C. Mangini e P. Pisanelli, mentre “Noi” di B. Valabrega conquista un totale di 3 premi, conferiti da giurie esterne. Accanto ai film che si sono aggiudicati un riconoscimento concreto, vale la pena citare anche altri tentativi, più o meno riusciti, che ci raccontano un panorama di documentaristi italiani che scovano le storie in patria o all’estero, che vanno a scovare i loro soggetti lontani migliaia di km o che, parimenti, decidono di imbracciare la telecamera e fare i conti con le cose più prossime.

“Non è amore questo” (34’) di T. Sala è un documentario di osservazione dalla scrittura millimetrata e attentissima, in cui si incastonano anche elementi di fiction. Racconta di Barbara, una ragazza disabile che vive a Milano, ed è guidato dal filo rosso della sua voce, essendo lei stessa co-autrice della sceneggiatura. Attraverso un racconto senza filtri, Barbara lascia accedere lo spettatore nella sua quotidianità, nei suoi ricordi, nei suoi desideri, nella sua intimità, senza nascondere niente. Già nella prima scena si intuisce di che pasta sia fatta: la messa in discussione di uno status e di un canone, quello della disabilità per l’appunto, è solo una delle tante cose che lei fa con naturalezza. “Non è amore questo” è scomodo, turbolento e può mettere a disagio i perbenisti, intercettando i percorsi del desiderio laddove sono più difficili da scovare.

Agli antipodi rispetto a questa scelta estetica, “Riski” (12’) di O. Reuschel è una serie di schegge di video, dove la qualità dell’immagine e della rappresentazione plastica passano in secondo piano. È una parte di un lavoro più ampio, che riprende le vite difficili di bambini e ragazzi di Melilla, una delle due enclavi spagnole in Marocco (l’altra è Ceuta). Nonostante la brevità e la sensazione di pugno allo stomaco, allo spettatore rimane impresso il rapporto a tratti polemico e immediato che i bambini del gruppo intraprendono con il regista-cameraman.

Un set decisamente più sereno è quello che ha permesso a S. Caceffo di proporre “Ali” (17’), la piccola storia senza pretese di un nonno allevatore di piccioni viaggiatori che cerca di trasmettere la sua passione al nipotino. Anch’esso molto breve, il documentario presenta un bel sostrato emozionale grazie alla tenerezza insita nel rapporto familiare, la ripresa è “verace” e non si avverte mai né artificiosità né la ricerca ossessiva di situazioni create ad hoc.

Il vincitore della sezione, “The fifth point of the compass” (78’) di M. Prinoth, è un film sull’indagine del senso della vita, che non può che passare dalla ricerca dell’identità. Il regista, con una scrittura pulita e uno svolgimento composto e lineare della storia, sceglie di puntare la telecamera sulla storia passata di Georg che fa scaturire quella presente di Markus. Cresciuti entrambi all’interno di una famiglia adottiva in una piccola comunità ladina sulle Dolomiti, nel 2009 Georg intraprende un viaggio verso Salvador da Bahia per rintracciare la madre biologica, ma al ritorno muore in un incidente aereo. Sette anni dopo, nel 2016, suo fratello Markus attraversa l’oceano per seguirne le orme e riuscire in quello in cui il fratello aveva fallito. Un documentario realistico che non strizza l’occhio facendo entrare lo spettatore in empatia con la persona di Markus, anzi: realistico proprio perché continuiamo ad avvertire una persona e non un personaggio.

Più costruito ed emozionale, pur trovando, come “The fifth point of compass”, il suo nucleo in un viaggio consacrato all’identità familiare, è “Noi” (55’) di B. Valabrega.
‘Noi’ indica la famiglia della regista, ma il grande potere insito nel termine e in questo film è quello di estendersi fino ad abbracciare universalmente “tutti noi”. Ritratto intenso che fa dialogare passato e presente di una famiglia ebrea peculiare, nella quale conflitti e silenzi tra fratelli sono all’ordine del giorno. La storia inizia il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’Armistizio, quando i bisnonni della regista impongono ai figli Bruno e Ugo di fuggire da Roma per tentare di oltrepassare le linee naziste, arrivando così a Napoli.
Il percorso inverso, da Napoli a Roma, è quello che intraprende Benedetta con familiari, senza nascondere le difficoltà di coabitazione e le micro-conflittualità sempre presenti, con una narrazione efficace e auto-ironica.

Cecilia Mangini ha 92 anni ma questo non la porta a smettere di “ri-prendere” il reale a modo suo, che sia con la macchina fotografica o con la telecamera. Aiutata dal regista Paolo Pisanelli, in “Le Vietnam sera libre” (32’) i due media si uniscono e si rincorrono. L’innesco della narrazione è il ritrovamento di due scatole contenenti i negativi di ben 90 rullini fotografici, dimenticati per di più di cinquantanni, che risalgono ai tre mesi di permanenza della regista nel Vietnam del Nord, all’epoca coinvolto nella guerra contro gli USA. È un mediometraggio che non si pone come palliativo rispetto al film mai realizzato, a cui la regista e Lino Del Fra dovettero rinunciare a causa del rimpatrio. Al contrario, “Le Vietnam sera libre” fa tesoro di quell’impossibilità e recupera la memoria di quella guerra, non come farebbe un filmato prettamente storico, ma attraverso un tono e un’urgenza espressiva che parla più che mai a noi e alloggi.