Girotondo, la graphic novel che porta l’opera di Arthur Schnitzler a Bologna

Sergio Rossi e Agnese Innocente firmano l’adattamento fumettistico del Girotondo di Schnitzler, a cento anni dalla messa in scena

Cosa: “Girotondo”, graphic novel di Sergio Rossi e Agnese Innocente Chi: intervista allo sceneggiatore Sergio Rossi Editore: Il Castoro

Bologna c’è eccome in Girotondo, libera reinterpretazione dell’omonima drammaturgia teatrale schnitzleriana, proposta in chiave di graphic novel da Sergio Rossi e Agnese Innocente. I due autori, rispettivamente alla sceneggiatura e ai disegni, creano una versione contemporanea decisamente fedele a quella che, per struttura e intenzioni, era stata creata dall’autore austriaco. Lì dieci quadri che si compongono ad “anello”, qui dieci storie in cui i personaggi si travasano da uno all’altra, ricreando l’idea del girotondo di sentimenti e situazioni delineate da Arthur Schnitzler giusto un secolo addietro.

Versione contemporanea, si diceva. Non solo. Versione contemporanea di una pièce teatrale in chiave di graphic novel rivolta a un pubblico YA ovvero young adult. Infatti Girotondo è uscito a fine aprile per Editrice Il Castoro, casa editrice con uno storico passato in campo di saggistica cinematografica, poi passata a operare nel settore dell’editoria per ragazzi con un catalogo di grande importanza. Nel tempo, Il Castoro sta costruendo un’ottima sezione di fumetti dedicati ai ragazzi, sia originali che in traduzione, come il recente Harley Quinn. Gotham arrivo!, di Mariko Tamaki e Steve Pugh.

Tornando a Girotondo, nelle dieci storie che lo compongono ci sono luoghi strategici di Bologna e luoghi inusitati, ma necessari al contesto adolescenziale. Quindi Sala Borsa, piazza Nettuno, via Righi, ma anche il Liceo Scientifico Augusto Righi. Un’attenzione ai luoghi e ai personaggi, che nel racconto si muovono fra titubanze e slanci tipici di un’età adolescenziale, eppure vicini a chiunque provi dei sentimenti.

Abbiamo rintracciato Sergio Rossi per porgli qualche domande su questo suo ultimo lavoro.

«Visto che mi hai intervistato già altre volte, proporrei di darci del tu…»

Benissimo. Così andiamo direttamente al dunque.

«Inizia pure.»

Sei cosciente del fatto che il vostro Girotondo sia uscito a cento anni esatti dalla prima rappresentazione teatrale di Girotondo?

Ora che me lo dici, sì. Non me ne ero accorto perché non sono mai stato bravo con gli anniversari. In realtà Schnitzler aveva finito il suo lavoro teatrale già nel 1900, ma per qualche ragione è stato rappresentato vent’anni dopo. A dirla tutta, anche la prima storia del nostro Girotondo è nata vent’anni fa.»

Ma dai!

«È vero, giuro. È la storia più vecchia di questo lavoro. L’ho scritta ai tempi in cui ero uno studente universitario fuorisede.»

Mettendo in parallelo il vostro lavoro con quello di Schnitzler. L’autore racconta nel suo lavoro teatrale quella che è la difficoltà di amare, di comprendere il perché di un amore, così come della figura da amare. Un ragionamento universale, dannatamente contemporaneo. A maggior ragione perfettamente calzante per le giovani generazioni. Non trovi? È così anche nei vostri episodi.

«In Schnitzler questo accade perché era un genio della narrativa. Ieri come oggi, la posta in gioco è sempre la stessa: essere visti da chi amiamo, e fare in modo che questa persona ci ricambi. Possono cambiare gli accessori, per esempio i cellulari al posto del telefono fisso, ma poi il bandolo da sciogliere non cambia. C’è da dire che nell’opera originale il sesso, che avviene sempre fuori scena, è usato per mostrare l’impossibilità di amare. Nel nostro fumetto siamo cautamente più ottimisti, e allarghiamo il palcoscenico anche a rapporti con persone dello stesso sesso.»

Tu vieni dal mondo della fisica. Si potrebbe definire il lavoro di Schnitzler per Girotondo come una formula matematica perfettamente sviluppata, o come una geometria senza sbavature. Sei stato attratto, consciamente o inconsciamente, dalla composizione millimetrica dei sentimenti messa in campo dall’autore austriaco? Dal caos dei sentimenti che ne fuoriesce?

«La struttura di Schnitzler è geniale (l’ho già detto?) e mi è piaciuta subito quando la scoprii, ehm, qualche anno fa. Tra l’altro, ha avuto ben quattro adattamenti cinematografici, l’ultimo è del 2011. Forse è la formazione scientifica, ma in generale mi piacciono molto le narrazioni che hanno anche una struttura molto forte, come in questo caso. Una struttura che ti permette di dare nuove sfumature alla storia. Per esempio, alla fine nel nostro Girotondo il cerchio si chiude, ma con una sfasatura rispetto all’inizio che riguarda un po’ tutti i personaggi, i quali escono diversi da come sono entrati.»

Aggiungo che anche il creare capitoli con un numero preciso di tavole mi pare si rifaccia al mondo delle formule matematiche oltre che a quello dei quadri teatrali.

«Sono partito da un gioco narrativo: dieci racconti di quindici pagine ciascuno, con una vignetta a tutta pagina in apertura e in chiusura. Molti autori che mi piacciono, come Queneau, Perec e Calvino, si sono spesso dati dei vincoli che hanno sfruttato narrativamente. Questa scansione regolare funziona come una linea melodica sulla quale poi si inseriscono gli assoli – ossia le storie – dei personaggi, che hanno tutte la stessa durata. Questo mi ha costretto a pensare, per ognuno di essi, una costruzione narrativa diversa così da contenere ogni racconto in poche pagine, pur mantenendolo in coerenza narrativa con li altri. Ogni storia sembra infatti a sé stante, in realtà sono tutte legate tra loro sia dalla successione temporale sia da richiami, citazioni e riferimenti. Per esempio, “la festa di Save” a cui tutti fanno riferimento, fino a formare un romanzo corale.»

Quindi?

«Quindi quando in una storia cambiavo un dettaglio, dovevo sempre rivederle tutte. Insomma, dal punto della sceneggiatura mi sono complicato la vita da solo, ma proprio per questo è stato molto divertente scriverla. Per fortuna ho avuto sempre un controllo a terra da parte delle mie editor, Maria Chiara Bettazzi e Chiara Arienti, con le quali Agnese ed io abbiamo avuto un confronto, e un conforto, continuo.»

In un’altra vita sei stato fra i primi editori italiani, se non addirittura il primo, a pubblicare Bastien Vives. È l’assonanza di stile fra l’autore francese e Agnese Innocente ad aver creato la grande sintonia che si avverte nelle tavole del vostro lavoro?

«Ricordi bene. Come libro, sono stato il primo a pubblicare Vivés in Italia con Il gusto del cloro, che ho inoltre tradotto con Raffaella, mia moglie. Agnese ha guardato ovviamente Vivés, come tutti o quasi i disegnatori degli ultimi quindici anni, vista la bravura dell’autore, ma il suo stile è completamente personale. Ha un talento enorme nella composizione della pagina e della singola vignetta, con un grande senso delle inquadrature: la pagina ambientata sul ponte della ferrovia, tanto per dirne una, è bellissima. Per non dire della recitazione dei personaggi e della scelta dei loro accessori. L’assonanza tra noi è nata quando ho visto gli schizzi dei personaggi e della città: per me potevamo già stampare quelli.»

Nel vostro Girotondo date molto spazio ai silenzi, capaci di far parlare le architetture oltre che i personaggi. Un rischio non da poco in un mondo dove la parola è dilagante.

«Non so se è un rischio. Per me e Agnese era il modo in cui volevamo raccontare queste storie. Ci sono momenti in cui si parla molto, altri in cui parlano i silenzi, altri ancora in cui la città amplifica, con le sue architetture, i sentimenti in gioco. Nella sceneggiatura ho voluto creare un ritmo tra parole e silenzi, tra flashback e linea narrativa, tra vignette orizzontali e verticali, tra azione e staticità, e spero di esserci riuscito. Spesso si scambiano le vignette mute come scusa per andare più veloci con la lettura, ma è un errore. In questo libro sarebbe stato troppo facile riempire ogni pagina di messaggi e battute e allungare artificialmente il tempo di lettura. Ma sarebbe servito alla storia? Per niente. Credo invece che questo sia un libro sul quale si possa tornare più volte senza perdere proprio il piacere della lettura. In generale, non penso che un romanzo a fumetti si possa giudicare dal numero di pagine e dal tempo impiegato a leggerlo, quanto dalla sua densità narrativa, da quello che ti racconta e da come te lo racconta, che è indipendente dal numero di pagine. Facendo un’equivalenza con la narrativa, non è che un romanzo di cinquecento pagine valga più di uno di cento solo perché ha una foliazione maggiore e, in teoria, ci si mette più tempo a leggerlo. Anzi, a volte ci sono romanzi di cinquecento pagine che si leggono in poco tempo perché la scrittura e la storia non lasciano nulla, perché la maggior parte delle parole è solo rumore di fondo, mentre ci sono libri più brevi sui quali si torna più e più volte per le emozioni che ti danno. Faccio due esempi con due romanzi a fumetti. Craig Thompson scrive e disegna Habibi, che è di ottocento pagine, delle quali la maggior parte è inutile, come anche la storia in sé La prima uscita de Lo scontro quotidiano, di Manu Larcenet, uscito quando l’autore non pensava di aggiungere altri tre capitoli, è di sole 64 pagine, ma ha una densità narrativa pari all’uranio arricchito. Infatti ti esplode dentro come un’atomica e lo rileggi quante volte vuoi.»