Sto Pensando di Finirla Qui, recensione del nuovo film di Charlie Kaufman

Un bellissimo e terribile film sul tempo e il rimpianto, su Netflix

Cosa: Sto Pensando di Finirla Qui – I’m Thinking of Ending Things, una recensione Regia: Charlie Kaufman, 2020 Cast: Jesse Plemons, Jessie Buckley, Toni Collette, David Thewlis Dove: su Netflix

Quando arriva un film come Sto Pensando di Finirla Qui c’è la tendenza a considerarlo come un rompicapo, un deragliamento dai binari che, se non viene percepito come perfettamente giustificato (non si sa bene da cosa), rischia di essere classificato come inutile pippa. Il cinema ha invece la possibilità, tutto sommato una delle possibilità che più facilmente si legano alle sue caratteristiche di medium, di raccontare suddividendo, distribuendo su molteplici soggetti e oggetti, le fasi della vita, la personalità e i pensieri di un individuo, le possibilità di scelta, le interpretazioni parziali e mutevoli di uno stesso avvenimento. L’abitudine a cercare nel cinema un racconto univoco, da poter ripercorrere sentendosi a proprio agio nella sua struttura, determina che la narrazione diversa sia poco utilizzata. È per molti aspetti, invece, più vicina alla prassi dell’elaborazione umana, ai processi comuni nel trattamento dell’esperienza e della memoria, di quanto non sia la messa in scena di una trama lineare che abbia il solo scopo di costruire un artificio intrattenente. Il cinema ha possibilità di indefinitezza, di mescolare le immagini, di servirsi di attori e luoghi come recipienti per contenuti non definitivi né statici, che gli consentono, assieme allo scolpire il tempo, di scolpire l’esistenza, i desideri, i tentativi di comprendere quanto si è perso e di immaginare cosa sarebbe potuto essere. Tutte cose che occupano di più la nostra vita, ad esempio, della lotta per delle gemme che possono far sparire una quota degli esseri presenti nell’universo.

[Spoiler] Il film di Kaufman racconta questo, la vita di un uomo per come è capace di elaborarla. Un uomo anziano, bidello di una scuola, che per raccontarsi da giovane crea una ragazza al suo fianco, le assegna le risposte alle sue domande, la rende il contenitore di tutte le sue aspirazioni facendola poeta, fisica, pittrice, critica cinematografica e altro ancora. Riversa in lei le passioni fra cui non ha saputo e voluto scegliere, mentre trattiene in sé la mancanza di talento e decisione che lo hanno portato a una confusione di aspirazioni non espresse e di eventi subiti e non compresi. Vede i suoi genitori, nella loro vecchia casa, li costruisce con ricordi di decenni, li vede invecchiare e ringiovanire, esprimersi in un modo innaturale che fonde il ricordo dei loro discorsi con l’interpretazione di quel che le parole volevano davvero dire.

Il film, in due ore, mostra tante cose, e in molti modi. La ripetitività dei gesti, le conoscenze di cui siamo fatti, che sembrano averci in qualche modo sostituiti, le indicazioni per leggere la visione dall’alto di un’esistenza intera, la forma musical per ripercorrere i momenti in cui si uccidono i propri desideri, l’inevitabile certezza che, se ci si mette a fare l’analisi di un film, si finisce sempre con una sigaretta fra le dita molli, l’aria altezzosa, la ricercata riflessività dallo sguardo obliquo di chi ha una scopa nel sedere.

Kaufman ha tratto il film dal romanzo del canadese Iain Reid, affrontando così tematiche a lui congeniali, ma, credo, in maniera più efficace del solito. Nonostante la frammentarietà, niente è superfluo, perché tutto è reale ed esplicito, ma non nell’ordine  e nell’unitarietà che ci si aspetta; uno sguardo d’insieme è uno sguardo non lineare, il disordine è il film ed è alla base delle mancate scelte. Non c’è follia ma comune riflessione, che proprio il riconoscimento razionale di un’esistenza normalmente ancorata al tempo rende amara, in quello che è fondamentalmente un bellissimo e terribile film sul rimpianto.

voto: 4,5 su 5

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