Il diario dell’eroe, la raccolta poetica di Gilberto Centi

L'intervista a Vincenzo Bagnoli, curatore di un libro in cui "prosa e poesia diventano un tutt'uno, cioè Armonia"

Cosa: Il diario dell’eroe, raccolta di scritti di Gilberto Centi Autore: Gilberto Centi Chi: dialogo con il curatore Vincenzo Bagnoli Edizione: Pendragon, 2020 Costo: 15 euro

Fra la fine degli anni Settanta e la metà dei Novanta del secolo trascorso, il famigerato Novecento, Bologna era (o così appariva) una fucina di idee, di persone cui venivano in mente e ne peroravano la causa fino allo stremo.
In quello che era veramente un “bugigattolo” di via del Fossato, viuzza in pieno centro cittadino, viveva una di queste persone. Si chiamava Gilberto Centi e, come molti in quel periodo, era approdato a Bologna da altri lidi. Ma proprio qui aveva trovato ascolto in ambito culturale.

Centi era molte cose. Era un poeta legato al periodo della beat generation, così come a un cotè politico che scavalcava la Sinistra istituzionale. Era un giornalista culturale di grande acume, era un critico, era un operatore che della cultura aveva fatto il suo vessillo. Tutto questo aveva nel tempo quasi cancellato il suo essere poeta, il suo elaborare una scrittura che, oggi, sarebbe stata annoverata fra quelle “di ricerca” almeno per la sua parte stilistica. Una scrittura comunque anticipataria di certe forme di poesia che hanno fatto capolino a inizio del nuovo Millennio.

A distanza di vent’anni dalla prematura scomparsa di Centi, Pendragon edizioni colma il vuoto riguardante proprio il lavoro poetico di questo “facitore di cultura”. Lo fa pubblicando Il diario dell’eroe, (pp. 232, €15,00) volume curato da Vincenzo Bagnoli in cui va a confluire «quello che era un progetto di lavoro rimasto in fieri». La causa è probabilmente da ricondurre a una pignoleria estrema di Centi verso quanto andava producendo, traducibile in una continua riscrittura resa necessaria per avvicinarsi passo dopo passo a quanto voleva realmente dire. Una necessità che lo ha rallentato nella pubblicazione dei suoi testi, dall’impronta fluviale e interlocutoria, ancora oggi carichi di una forte potenza espressiva.

Abbiamo parlato del Diario dell’eroe e della figura di Gilberto Centi con il curatore Vincenzo Bagnoli.

Pensa che il lavoro di GC possa, anche solo idealmente, anche solo in parte, essere posto come antesignano di quanto proposto nel nuovo millennio da alcuni autori, soprattutto quelli raccolti sotto la bandiera di Prosa in prosa?

Direi proprio di sì: ci sono ovvie differenze, soprattutto nei punti di riferimento scelti, ma l’idea di Gilberto era già quella del superamento dei generi. E in comune c’è di sicuro l’eliminazione dello scarto metaforico e l’attenzione all’infraordinario, in veri e propri voyages autur de sa chambre che sembrano anticipare quelli di Gherardo Bortolotti, se vogliamo fare un collegamento proprio con Prosa in prosa.

Come si è trovato a essere il curatore di questo libro e a confrontarsi con un autore che non poteva indicarle le coordinate profonde del suo operato?

È stato un lavoro difficile, non lo nascondo, ma necessario: ci tenevo moltissimo che il lavoro di Gilberto uscisse. Pensi che anni fa, quando un editore (Gallo & Calzati) mi propose di pubblicare la mia prima raccolta di poesie, accettai solo a condizione che si fosse fatto il Diario dell’eroe. Questo perché avevo seguito Gilberto nel corso degli anni Ottanta/Novanta, e la sua poesia, insieme a quella di Roversi e Petazzini, sui fogli dello Spartivento, era stata una guida. Ricordo distintamente la prima volta che lo lessi, sulla tovaglietta di un’osteria: mi dissi che quello era il modo in cui si doveva scrivere; ed erano versi del Diario dell’eroe…

Perché sono passati vent’anni dalla scomparsa di Centi per poter arrivare a questa raccolta postuma?

La scomparsa di Gilberto è stata improvvisa: non ha fatto in tempo a preparare il materiale per un libro postumo, ma ha lasciato solo degli appunti, i suoi “lavori in corso” ventennali.
Stefano Massari in realtà mi ha raccontato che negli ultimi giorni lo aveva aiutato a fare ordine, che qualcosa era stato sistematizzato e trascritto al computer. Ma quel dischetto non è stato mai ritrovato. Anzi, le stesse carte che sono servite da base per questa pubblicazione sono state “salvate” abbastanza rocambolescamente da Cesare Ferioli, prima che la padrona di casa buttasse tutto, e poi trasmesse agli amici dell’Aquila, a Giampiero Duronio e Maurizio Lentisco, che Gilberto aveva nominato come curatori testamentari.
Loro si sono fatti carico di una ricognizione del materiale – molto ampio – da cui estrapolare la parte poetica, fotocopiandola, prima di depositare tutto presso l’Archivio di Stato dell’Aquila, dove la catalogazione si è conclusa non molto tempo fa (credo anche per colpa delle note e tristi vicende) grazie a una giovane studiosa, Michela Di Francesco.
Le fotocopie sono poi state date a Roberto Roversi, primo promotore della loro pubblicazione, che le ha poi lasciate, alla sua scomparsa, al nipote, l’editore Antonio Bagnoli; nel frattempo Mavi Gianni, Valerio Monteventi e altri raccoglievano ancora altri materiali, anche grazie a iniziative pubbliche. Insomma, la ricomposizione della sua opera poetica è stata una questione piuttosto lunga e complessa…

Viene anche da chiedersi se, oggi, il lavoro di Gilberto Centi non abbia perso la sua forza, se quanto ha scritto negli ultimi decenni del XX secolo riesca ad arrivare a un pubblico di nuovi (soprattutto giovani) lettori.

Potrei rispondere a titolo personale, dicendo che certo la sua poesia conserva ovviamente l’impronta del tempo in cui è stata scritta, ma ha tutt’ora una forza straordinaria e un’incredibile attualità, anche per i temi che tocca. Ma penso che saranno i lettori stessi chiamati a dare una risposta precisa in merito. A mio giudizio comunque i più giovani troveranno in quelle pagine delle considerazioni fondamentali per ricostruire una parte di storia ancora poco visibile della cultura, bolognese e non solo, e per capire anche l’oggi, come certe cose hanno preso forma, cosa ha determinato certe risposte, quali percorsi hanno formato un’estetica ancora vigente.
Mi limito a citarti questi versi, giusto per dare un’idea: «quando la rete la tela cercò di prenderci tutti e finalmente internet cadde sulla terra col suo tranello aperto come un buco nero che divorava isole – la rete luogo dell’esilio senza addio».

Qual è stato il faro che ha seguito nell’organizzare i materiali? Oltre a quanto dice nella nota. E quali difficoltà ha incontrato?

Certo il lavoro sul materiale recuperato e in assenza di un dialogo con l’autore è stato difficilissimo. A guidarmi solo i ricordi di alcune chiacchierate davanti a una birra – ma che diventano in fretta discussioni appassionate sullo scrivere – o dei reading, che dicevano moltissimo del suo stile, polifonico, multimediale, performativo. Ma per evitare che la ricostruzione fosse troppo soggettiva e impressionistica, non ho potuto fare altro – oltre a intervistare chi lo aveva conosciuto meglio e aveva lavorato con lui – che affidarmi ai testi editi in vita, usandoli come mappa per decifrare la direzione in cui si stava muovendo. Questo perché il suo libro era un cantiere, un infinito cantiere durato decenni, del quale potevo provare a capire qualcosa solo seguendone gli affioramenti intermittenti su riviste, pubblicazioni sparse, fogli, tovagliette ecc.
Il materiale poi si presentava in una stato di estremo disordine: anche questo ha contribuito al ritardo ventennale dell’uscita. Ed è stata necessaria la collaborazione di molti per arrivare a questo risultato (che per me resta parziale, perché per fare le cose fatte bene bisognerebbe consultare il materiale depositato all’Archivio di Stato dell’Aquila). Il merito va a Massari e Ferioli che hanno salvato le carte di Gilberto; a Duronio e Lentisco, curatori testamentari, che le hanno pazientamene percorse per mettere insieme un dossier relativo alla produzione poetica; A Roversi che ha raccolto questo materiale e ne ha avviato la collazione, con i materiali che nel frattempo altri (su tutti i già ricordati Mavi Gianni e Monteventi, ma vanno ringraziati anche Stefano Casi, Fabrizio Lombardo, Elio Perrone, Manuela Pasquini) stavano raccogliendo da ogni possibile fonte; e infine a tutti quelli che hanno collaborato alla complicatissima trascrizione.

Hai accennato allo stile performativo di Centi. Lui esprimeva molto del contenuto dei suoi testi attraverso il dire dal palco. E non tanto come i costituenti di ZooPalco, un fenomeno di questi ultimi anni, ma attraverso un lavoro certosino di acclimatazione dei testi con la musica.

Sì questo aspetto è quello che ritengo il più innovativo – rispetto ai suoi anni – e il più attuale ancora oggi della sua scrittura: aver saputo far vivere il testo dentro un clima intermediale fatto di rock, di radio, di cinema e fumetto, di romanzo – la prosa appunto – e di contemporaneità. Un’ampia gamma di linguaggi, materiali e spunti fatti dialogare fra loro, come Roversi insegnava, ma anche di più: direi «messi in rete». E proprio questa è la cifra straordinaria della sua novità…

Eppure le sue performance non ammettevano altro elemento attoriale se non la voce. Il corpo era necessario per la necessità di dire, credo.

Il suo corpo era solo un corpo che leggeva, è vero: e la sua presenza una voce, soprattutto. Ma le performance erano anche musica dal vivo, musica registrata, videoclip proiettati: e un’accuratissima regia, documentata dai suoi appunti e ora da un’apposita sezione del libro.

Quando ti è stato proposto questo progetto e da chi? Quanto ci hai messo per accettarlo e per portarlo a compimento?

In molti, come ho detto, sentivamo la necessità di fare tutto il possibile per fare uscire il lavoro di Gilberto, a partire da Roversi. La mia fu all’inizio un’autocandidatura spontanea: per un debito di gratitudine che sentivo. Va ricordato che Gilberto non era solo uno scrittore “egoisticamente” ripiegato sul proprio foglio, ma un grande organizzatore culturale, un attivista della poesia, un “guerrigliero della comunicazione” – come l’ha chiamato Monteventi e un generosissimo lettore/ascoltatore, oltre che un bravissimo talent scout, scopritore per esempio dei Luther Blisset (futuri Wu Ming, che hanno contribuito al libro con un bellissimo ricordo delle serate con Gilberto, delle sue trasmissioni radiofoniche). Con pazienza inesauribile ascoltava, organizzava, coordinava… basti ricordare i “Censimenti della poesia” che hanno dato modo a moltissimi a Bologna di conoscere le rispettive scritture e di confrontarsi. Quindi, insomma, Bologna e gli scrittori bolognesi gli devono moltissimo: io almeno sentivo di dovergli molto, e quindi mi venne spontaneo cercare di fare qualcosa per pubblicare questo autore che aveva pubblicato tanti. Era il 2003: Gilberto era morto da neanche tre anni. Poi i tempi, come ti dicevo, si sono dilatati. E solo recentemente, nel 2019, ho saputo da Antonio Bagnoli che si era riusciti ad arrivare a un file, basato sulla congerie di fotocopie raccolte nel corso del tempo. Davanti al mio entusiasmo Antonio mi ha chiesto se volessi incaricarmi io di sistemare quel materiale, che era stato solo trascritto e non ordinato. Ho accettato subito: era un sogno che finalmente si poteva realizzare
Quello che ho aperto sul mio computer era comunque una riproduzione digitale del caos di dattiloscritti e manoscritti ritagliati e fotocopiati: ma intanto erano stati evidenziati diversi problemi di interpretazione, che potevo andare a risolvere ordinatamente, ed era possibile individuare i doppioni, le redazioni multiple dello stesso testo, le varianti ecc.

Roversi, che era un grande “estimatore” del lavoro di Centi (o lo era forse più della persona?), lo descrive come un “poeta vero e completo” per la sua furia nello scrivere e per quello che, mi pare, sia l’inesausto lavoro sul testo attraverso un fitto tessuto di varianti. Si può stigmatizzare così la produzione di Centi? Non si getta il bambino insieme all’acqua sporca?

In effetti dal materiale superstite emerge quanto Centi fosse un artista attentissimo a ogni aspetto della produzione: a vederlo sul palco, erede di una precisa stagione del teatro, poteva dare l’impressione di un attore che si affidasse al flusso emotivo dell’improvvisazione. Non era così: la scrittura e la performance erano frutto di un lavoro minuziosissimo di prove, abbozzi e correzioni continue, una distillazione attentissima di parole e toni. Non mi pare quindi sbagliato il giudizio di Roversi: c’era questo furore che lo portava a gettarsi sul testo con passione, ma in una maniera razionalmente controllata, attraverso il coraggio della cancellazione, in un perfezionismo per certi versi autopunitivo: se non altro perché gli ha impedito di arrivare a pubblicare in vita.

Di certo, il lavoro delle varianti, lo fa sicuramente non un poeta della domenica, tutt’altro. Sei d’accordo?

Infatti, tutt’altro che un poeta della domenica: e chi ne ha tratto vantaggio di questo inesausto lavorio siamo noi, perché possiamo leggere un testo perfezionato, accuratamente calibrato, malgrado la precarietà del supporto materiale da cui è stato recuperato

Colpisce nell’opera di Centi il riferirsi “generazionale” a Kerouack, Corso, Ferlinghetti come padri putativi, a tutta la Beatgen, quando i suoi testi mi pare invece contengano un accento forte a qualcosa che potrebbe essere definito come “romanticismo”. È un dato anagrafico che si scontra con una sua indole?

I riferimenti culturali sono quelli, non c’è dubbio. E del resto l’ambiente in cui Centi muove i primi passi era proprio quello del teatro sperimentale degli anni Sessanta, molto direttamente influenzato dalla Beat Generation. ma non ci vedo contraddizione… gli stessi Beatnik era un po’ romantici, a modo loro…. Mi viene in mente quell’intervista che realizzammo a Lawrence Ferlinghetti per Versodove, più o meno sempre nel torno d’anni di Gilberto: ci disse che il poeta era “a bearer of heros”…

Mi viene da pensare questo a partire dai titoli (falsamente) epici che ha dato ad alcuni dei suoi lavori (Diario dell’eroe, Il viaggio dell’eroe, Notizie dell’esilio…). Qual è la tua opinione?

Sì, è quella stessa immagine che ricorre nelle parole di Ferlinghetti… io non credo assolutamente che Centi (e nemmeno Ferlinghetti) fosse ingenuamente convinto di essere un eroe romantico… non credo che lo sognasse (come invece Sanguineti sognava – ma sempre ironicamente – di essere un “Hoffmann in delirio”). L’immagine dell’eroe e dell’esilio sono chiare autoironie, e ci sono testi che dipingono con molto disincanto quale sia questa dimensione “eroica” dello scrittore: una durissima resistenza, contro le difficoltà materiali di una vita forzatamente da bohème, certo, ma non solo. Soprattutto contro il montare di un oceano di indifferenza e di silenzio, contro il “distanziamento sociale” che i media elettronici stavano imponendo già tra le persone, contro la solitudine e l’isolamento dell’individuo sottratto alla dimensione pubblica e sempre più “privato”. E di nuovo non con l’eroismo di una risposta, che magari non è umanamente dato avere, ma con il coraggio del documento e della denuncia.

Il libro presenta tutta l’opera che Centi ha prodotto? Hai dovuto scartare, qualcosa e perché? Manca qualcosa e perché?

Rispetto al materiale consegnato a Roversi e poi integrato dal «Centimento» di Mavi Gianni, ho scartato solo alcune redazioni incomplete o chiaramente preparatorie di testi che erano in altre fotocopie dati in forma più definitiva o che erano poi stati pubblicati (ma qualche variante significativa è comunque registrata). Ma a essere sincero, non lo so se presenta davvero tutta l’opera; di certo dovrebbe esserci tutto quello che era uscito su riviste, fogli, volantini ecc., e tantissimo altro materiale rimasto nel cassetto. Ma non so se quanto pubblicato corrisponda all’idea di Diario dell’eroe che ne aveva l’autore… E penso che nessuno possa dare una risposta certa: nessuna delle persone che ho intervistato, fra quanti hanno avuto accesso ai suoi materiali, sa con esattezza se vi fosse altro materiale: andato perso, come il famoso floppy disk ricordato da Massari, o rimasto nascosto in qualche scatolone. Certamente sarebbe stato necessario un sopralluogo all’Archivio di Stato, ma in questi venti anni diverse situazioni hanno congiurato per rendere difficile fare ciò che sarebbe stato necessario: come curatore devo riconoscere (e lo faccio anche nella premessa) questo mio grosso limite. La speranza è che – come ho scritto lì – questa pubblicazione sia solo un primo passo e venga qualcuno più bravo di me a perfezionare il lavoro. Ma un passo era necessario, anche se imperfetto: perché troppo tempo era passato ed era delittuoso lasciare nascosto questo libro straordinario.

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