Il rock è sperimentale, ecco i Liars

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Al Locomotiv continua la rassegna WordOfMouth con la band newyorchese

 

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Chi: Liars
Cosa: concerto
Quando: 27 ottobre, 22.30
Dove: Locomotiv Club, via Serlio 25/2
Costo: 18 euro + d.p
Info: info@locomotivclub.it

A un mese dal suo dirompente esordio, la rassegna WordOfMouth -emanazione avant del vivace cartellone del Locomotiv Club– mira ancora più in alto e prosegue sabato 27 ottobre con un appuntamento atteso con grande impazienza dai cultori di suoni altri. La scelta di puntare sui Liars

Al Locomotiv continua la rassegna WordOfMouth con la band newyorchese

 

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IN BREVE Chi: Liars Cosa: concerto Quando: 27 ottobre, 22.30 Dove: Locomotiv Club, via Serlio 25/2 Costo: 18 euro + d.p Info: info@locomotivclub.it

 

di Marco Napolitano

 

A un mese dal suo dirompente esordio, la rassegna WordOfMouth -emanazione avant del vivace cartellone del Locomotiv Club– mira ancora più in alto e prosegue sabato 27 ottobre con un appuntamento atteso con grande impazienza dai cultori di suoni altri. La scelta di puntare sui Liars per dar corpo al secondo episodio di WOM dimostra di porsi in stretta continuità con lo scorso evento, quello che aveva visto come protagonista lo scatenamento del vorticoso cyber-tribalismo dei Black Dice, dando così origine a una programmazione caratterizzata da una spiccata solidità concettuale.

Entrambe le band, infatti, esordiscono a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila in una Grande Mela tesa schizofrenicamente tra lo slancio ottimistico verso il futuro e l’irretimento in angosce millenaristiche antiche e nuove, trovandosi a proprio agio tra le macerie postume alle deflagrazioni nichilistiche della no-wave newyorchese che fu ed esprimendo, altresì, un’analoga predilezione verso destrutturate ed oscure soluzioni sonore ritmico-primitivistie. L’ex dopolavoro ferroviario di via Serlio, da luogo di leisure operaia, simbolo di una società industriale in costruzione, muta congruentemente la propria antropologia trasformandosi in tribù post-industriale.

Accontonato immediatamente il funk-punk-dance di ascendenza Gang of Four, che era stato riesumato con buoni risultati nella prima prova risalente al 2001 (They threw us all in a trench and stuck a monument on top), i Liars assurgono agli onori della critica con due album pubblicati nel cuore degli anni Zero:They were wrong so we drowned (2004) e Drum’s not dead (2006), opere imprescindibili del rock contemporaneo. Si tratta di due quasi-concept album -l’uno dedicato alla stregoneria, l’altro all’allegoria di due forze psichiche in tensione dialettica- attraverso cui i newyorchesi forgiano definitivamente il loro stile, il quale vira a favore di un noise-rock nell’un caso cacofonico e concretista, quando non ancora debitore della lezione no-wave/post-punk (There’s always room on the broom), nell’altro più rarefatto e trascendente, a tinte psichedeliche (The wrong coat for you, Mt. Heart Attack). La solidarietà stilistica tra i due lavori è comunque assicurata da una costante: l’elemento magico-grottesco che dà linfa a dei sabba estatici, circolari, drum-oriented. Chi scrive non può non consigliare, a tal proposito, il confronto trasversale di due videoclip per entrare nel cuore dell’estetica della band: We fenced our gardens with the bones of our own (tratto da They were wrong…) e Let’s not wrestle, Mt. Heart Attack (tratto da  Drum’s not dead). La quintessenza dei Liars.

L’album omonimo del 2007 e Sisterworld, uscito nell’autunno di due anni fa, confermano l’elevata qualità di scrittura e di visione della band, che comincia a guardare in tutte le direzioni aprendosi a un gravido e sorprendente pluristilismo, a un’ispirata e coraggiosa poliglossia. Ma senza dimenticare la lingua madre. Houseclouds è quanto di più splendidamente pop abbiano mai composto, eppure il collaudato falsetto di Angus Andrew tradisce sempre un non so che di luciferino pari soltanto all’inquietante mimica facciale che, nel sinistro candore delle immagini del video che accompagnano il pezzo, ne trasfigura espressionsticamente i tratti. Sailing to Byzantium fa semplicemente storia a sé: le pulsazioni regolari del basso -che ricorda i salti di ottava di Careful with that axe, Eugene– sostengono, insieme a un drittissimo quattro quarti carico di accenti, una trasognata e ansimante linea melodica che esplode in mille rifrazioni elettroniche e in uno straziante gran finale. Unicum della loro discografia, un pezzo senza tempo. Quanto ai Liars adusi alla lingua madre, dal dittico di fine decennio vanno ricordati Clear island, Scarecrows on a killer slant e, sopratutto, Scissor: brano di apertura del penultimo album, sintesi delle conturbanti liturgie astratte  à la Drum’s not dead e di ostinato e assordante chitarrismo harsh.

Liars e Sisterworld contaminano e al contempo normalizzano un linguaggio, sono omologhi per eterogeneità. Nel bene e nel male, lasciano l’ascoltatore disorientato. Se Drum’s not dead aveva brillato per tenuta stilistica, coerenza d’impianto ed omogeneità d’innovazione, è stato restituendo questo stesso spirito alla propria ricerca che i Liars sono giunti al bellissimo WIXIW (pronunciato “wish you”), uscito nel giugno di quest’anno per la Mute. L’artwork della copertina dell’album è metafora visiva del cambiamento impresso alla sua sostanza sonora: la struttura del layout è data dalla rigorosa disposizione simmetrica di caratteri bianchi (che recano le informazioni fondamentali dell’opera) resi in un severo font sans serif e distribuiti con ordine compositivo su un omogeneo fondo carbon black. Un simile impiego del graphic design è anni luce lontano dagli artwork dei primi album, caratterizzati da segni selvaggi e cromatismi urlanti ai confini con la street art: d’altronde, era punk. La matura essenzialità che si percepisce già prima dell’ascolto è quindi pura evidenza. Il punto cruciale è che WIXIW segna la svolta elettronica dei Liars. Il ricorso ad asciutte e metronomiche drum machine è preponderante e sostituisce quasi del tutto la fisicità percussiva inaugurata con They were wrong so we drowned. Così il sound dei Liars da un lato si scarnifica e si trasforma in avant-pop minimalista dall’incedere quasi motorik (No.1 Against the rush), dall’altro si impregna di vischiosità sintetiche che generano una sorta di punk-funk 2.0 (Brats) dove sono i sintetizzatori a farla da padrone. Gettando un ponte tra presente e passato, il processo di stilizzazione sintetica si realizza compiutamente in Octagon e, in misura ancora maggiore, nella title track: la circolarità palindromica del titolo, insieme all’ardore desiderante che esso richiama, sono il preludio letterale al vertiginoso sabba elettronico al quale ci abbandoneremo sabato notte.

 

 

25 ottobre 2012

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