La diciannovesima edizione del Future Film Festival chiude premiando il racconto di formazione e la live action
Cosa: Future Film Festival 2017, film premiati e menzioni
di Sergio Rotino
Edizione strana quella che riguarda il Future Film Festival per quest’anno. Strana principalmente per il tempo, che inclemente ha dispensato pioggia…
La diciannovesima edizione del Future Film Festival chiude premiando il racconto di formazione e la live action
IN BREVE Cosa: Future Film Festival 2017, film premiati e menzioni
di Sergio Rotino
Edizione strana quella che riguarda il Future Film Festival per quest’anno. Strana principalmente per il tempo, che inclemente ha dispensato pioggia. E strana anche perché il vero film di apertura è arrivato in chiusura. La sala strapiena, come si attiene a ogni opening festivaliero, si è infatti potuta vedere la domenica sera, all’anteprima di Alien: Covenant e non martedì 22, per A Monster call. Poco male, diremmo. L’ultima fatica di Ridley Scott delude nel suo mantenere la rotta già tracciata con Prometheus, nel suo essere sequel e prequel al tempo stesso, nel suo dilazionare e dilapidare la potenza orrorifica, la tensione narrativa di un glorioso marchio di fabbrica. Al loro posto, una elaborazione parafilosofica (appena sbozzata quanto intrisa di pessimismo senile) sul concetto di divinità e di onnipotenza che, causa citazione da Shelley, crea un cortocircuito nella mente dello spettatore rimandandolo a Watchmen. Ma se ne potrà meglio parlare all’uscita ufficiale di metà maggio.
Non che la pellicola del regista Juan Antonio Bayona sia un capolavoro. Nelle sale italiane dal 18 maggio con il titolo di Sette minuti dopo mezzanotte (A Monster call) grazie a 01 distribution presenta alcune difficoltà nella tenuta (128 minuti di durata sono effettivamente troppi) più una retorica nella composizione delle scene, nelle soluzioni dei dialoghi e degli effetti speciali (Liam Neeson in veste di olmo? Beh, parliamone) sono debolezze che risaltano immediatamente. Ma al netto di questo, la giuria della XIX edizione del Future Film Festival, le ha giustamente assegnato il Platinum Grand Prize. Composta dalla giornalista Arianna Finos, dal regista Michele Vannucci e dal giornalista e regista Filippo Vendemmiati, la giuria ha deciso di assegnare al regista di The Orphanage il premio per il suo essere un «commovente quanto coinvolgente racconto di formazione ed elaborazione del lutto realizzato con grande talento visionario. Bayona usa in modo fluido la tecnica mista, animazione e live action, sovverte i canoni della favola classica, ribadisce la necessità della immaginazione come mezzo per superare la paura e il dolore».
Molto di quanto ha portato la giuria a far vincere l’opera di Bayona si ritrova ne La jeune fille sans mains, pellicola di animazione del francese Sébastien Laudenbach, cui è stata assegnata una menzione speciale. Opera non certo semplice, sicuramente crudele, intensa, meravigliosa, propone un tratto essenziale, quasi minimalista nei disegni costruiti su linee sottili, velocemente cangianti, che si abbina a tonalità tenui ad acquerello. La storia è presa da una fiaba dei fratelli Grimm, ma «nella versione antica, più crudele e meno consolatoria, per raccontare poi una storia di formazione semplice e forte, fuori dal tempo». Il lavoro di Laudenbach, accolto favorevolmente a Cannes nel 2016 e premiato ad Annecy lo stesso anno, riesce nel miracolo di restituire la tensione del racconto attraverso il poco, il quasi vuoto delle scene, il silenzio che spesso le alberga. Un piccolo gioiello di economia narrativa e visiva, che bisognerebbe recuperare alla sua uscita, anche questa volta prevista per la fine di maggio.
Fra i premi cosiddetti minori, spicca il FFFabulous FFFantastic per il miglior evento, assegnato quasi a furor di popolo alla pellicola di animazione inglese Ethel & Ernest, di Roger Mainwood dai sostenitori del FFF. Anche in questo caso, a pregiudicare non poco la fruizione di un lavoro più che ottimo, incentrato sulla biografia dei genitori del fumettista Raymond Briggs, è una mancanza di vera sintesi. Sarà che “per la rispettosa ricostruzione di un importante periodo storico, vissuto con grande delicatezza narrativa attraverso gli occhi di due personaggi tanto quotidiani quanto straordinari” c’era bisogno di entrare nei particolari, così da rendere il tutto più vero, ma qualche dubbio sulla necessità di 94 minuti di racconto cinematografico permangono.
La durata è invece un punto di forza del nipponico In this corner of the world, opera di Sunao Katabuchi, tratta dall’omonimo manga realistico di Fumiyo Kouno, qui in veste di sceneggiatore. Interessante vedere gli eventi di una parte del Secondo conflitto mondiale attraverso gli occhi del “nemico”. Questo fa Katabuchi, prendendo come personaggio principale della sua storia la giovane Suzu Urano, che nel 1944 si sposa trasferendosi nella città di Kure vicino a Hiroshima. È essenzialmente un film sulla perdita. Non solo Suzu è capace di perdere il senso dell’orientamento nelle città che frequenta, ma col procedere del film le capita di perdere persone care, la famiglia e il luogo di appartenenza, un mano come anche la fiducia in se stessa. Sono tutte perdite simboliche, necessarie al regista per tratteggiare come il Giappone durante la guerra entri in uno stato di prostrazione sempre maggiore. Da cui però si risolleverà proprio come fa Suzu, inguaribilmente propositiva contro le avversità. La narrazione della pellicola è attenta a descrivere la sofferenza delle persone comuni, la vita fatta di rinunce durante il periodo bellico, il tutto però immerso in un paesaggio agreste, bucolico, dove il tempo sembra voler imporre una lentezza di gesti e parole che nemmeno gli attacchi aerei americani, quando oramai siamo alla fine del 1944, sembrano scalfire. La routine appare così come un’ancora di salvezza più che come una fonte di ottusa rassegnazione. Così come la generosità che si crea fra le persone comuni è indice di unica via di salvezza dalle devastazioni della guerra e sulle follie del nazionalismo. Film solo all’apparenza delicato, In this corner of the world riesce a lavorare in sottrazione, ma rendendo quanto manca efficacemente pieno di narrazione.
Altro anime che ha colpito, in questo caso per la sua ingenita follia, è The Dragon Dentist: novanta minuti di follia fantasy diretta da Kazuya Tsurumaki (lo si ricorda per i film di Evangelion). Qui si parla di una “casta”, quella dei dentisti che difendono dalle carie i denti del drago che protegge il paese. A combattere contro le carie prodotte dai batteri e da altri agenti patogeni è la giovane Nonoko, che vede “rinascere” dalla dentina Bell, un giovane militare appartenente alle armate nemiche. Per le leggende, è un messaggio di pericolo e di morte. Lisergico è l’unico termine che si può applicare a The dragon dentist, che pare infischiarsene di indicare al lettore una vera storia, tenendo più all’effetto e al colpo di scena, oltre all’assurdità dei dentisti per draghi. Ma a quest’ultimo elemento i manga e gli anime ci hanno abituato. Agli altri un po’ meno.
In chiusura, fra i film visti, da segnalare ancora Saving Sally-A very tipical love story di Avid Liongoren, misto di animazione e attori in carne e ossa è il filippino. Sarà per questo essere una comune, banale storia d’amore che la giuria non lo ha preso in considerazione. Oppure per il suo essere un prodotto a vocazione fortemente indie-pop, oltre che costruito alla classica favola adolescenziale in chiave nerd. Detto altrimenti, se un aspirante disegnatore di fumetti, come rappresentato dal personaggio di Marty, ama segretamente la sua amica Sally senza mai riuscire a confessarglielo, non c’è molto da attendersi. E invece la rappresentazione del mondo che circonda i due ragazzi, fatta di mostri più o meno feroci, appare come una indicazione dello scollamento che esiste fra l’adolescente e il mondo dell’adulto, fra le necessità di esprimersi del primo e le rigidità del secondo. Nella sua falsa elementarità Saving Sally racconta la purezza dell’adolescenza, il modo in cui i ragazzi percepiscono il mondo e la sua opposizione alle loro fantasie. Lo fa in modo garbato, fin troppo compassato anche, e decisamente un po’ fuori misura. Novanta minuti sono infatti un tantino troppi da tenere. Ma come detto, è un problema che pare appartenere a molte pellicole viste in questa diciannovesima edizione del Future Film Festival, e non solo a esse. Chissà da dove proviene questa incapacità di sintesi. Al futuro prossimo la risposta.