Cronache dal Future Film Festival: il futuro del cinema non è mai scritto

Film fatti con la videocamera dell'iPhone e film che continuano a usare tecniche canoniche: critiche e ultime visioni dal FFF 2018

IN BREVE Cosa: Future Film Festival, XX edizione, visioni del weekend Quando: da sabato 2 a domenica 3 giugno 2018 Dove: Cinema Lumière, via Azzo Gardino 65, Bologna Costo: da 5 a 9 euro (varie riduzioni possibili) Infofuturefilmfestival.org

Ancora una ultima, consistente quantità di proiezioni e anche la ventesima edizione del Future Film Festival spegnerà i suoi schermi questo 3 giugno. Intitolata per il 2018 Il cinema del futuro | Il futuro (non solo) del cinema e concentrata totalmente nelle sale del Lumière, si è dimostrata una edizione dall’offerta cinematografica più ricca della precedente.

Al netto della retrospettiva sul maestro Isao Takahata e della tavola rotonda Ricordi struggenti, che questo 2 giugno alle 15 vede presso il MAMbo Luca Della Casa, Lorenzo Ceccotti, alias LRNZ, Claudio Acciari e Enrico Azzano discutere attorno all’opera del cineasta nipponico, quest’anno si sono viste pellicole interessanti soprattutto dal punto di vista della messa in scena e dell’uso delle tecniche. Per esempio il recupero di lavorazioni appartenenti alla tradizione, come il rotoscopio, ideata a inizi Novecento da Max Fleischer e poi impiegata nei classici di Walt Disney.

Proprio il rotoscopio è alla base del lavoro che Anne Magnussen propone col suo The man who knew 75 languages. La storia è invece di per sé estremamente classica oltre che lievemente didascalica, imperniata sulle vicende che a metà dell’800 portano il linguista Georg Sauerwein alla corte germanica dove si innamora, corrisposto ma contrastato, della giovane principessa Elisabetta di Wied con cui manterrà per tutta la vita un contatto strettissimo. Il film, che sciorina una lentezza tipica di molti dei prodotti transitati per le sale in questa ventesima edizione del FFF, è un vero inno alla pace fra le nazioni e al diritto di potersi esprimere liberamente nella propria lingua. La Magnussen, fotografa esperta e regista proveniente dalla norvegese Film School, chiude la sua presenza al festival domenica 3 giugno alle 18 con una conferenza presso il MAMbo in cui spiegherà il lavoro fatto con il rotoscopio per creare il suo film, aiutandosi con cortometraggi, backstage inediti e animatic. Il consiglio è di andarci dopo aver visto la replica domenicale del film (Sala Mastroianni, ore 15.30).

Domenica, a chiudere idealmente le proiezioni, ci sarà un film che invece racconta come negli States si possa ancora fare cinema di botteghino, precisamente teen horror movie da botteghino, contenendo i costi. A proporlo è la già famosa Blumhouse Productions (quella di Scappa, per intenderci), nota per non produrre film che abbiano un budget superiore ai 5 milioni di dollari, ma lasciando la massima libertà creativa agli autori. Una politica per ora vincente. Così è anche per Truth or Dare, proposto dal Future Film Festival in due proiezioni domenicali: alle 14 e poi alle 22.30 in Sala Mastroianni. Diretto da Jeff “Kick-Ass” Wadlow Truth or Dare è la classica storia horror su di un gioco, ovvero Obbligo-Verità, che “prende una brutta piega”. Ma il valore di un simile film sta appunto nel budget risicato (3,5 milioni di dollari), capace di stimolare la creatività del regista nelle trovate visive e di sceneggiatura. E qualcosa di buono ci deve pur essere, visto che oltre oceano ha un incasso medio di circa 90 milioni di dollari.

Interessante, anche se appare fermarsi al detto “dietro la tecnica nient’altro”, è stato poter assistere all’anteprima festivaliera dell’ultimo esperimento firmato Steven Soderbergh, Unsane. Scriviamo “esperimento” perché il regista lo ha girato interamente usando le videocamere dei telefonini. Soderbergh parla esplicitamente di iPhone, ma la vera nota di merito è di far intuire quali possano essere le enormi potenzialità di alleggerimento della catena produttivo-creativa relative a questo device. Lo sapevamo di già, per varie produzioni indipendenti, ma a questo livello possiamo definirlo un vero sdoganamento. Peccato che tutta la novità in Unsane si fermi ai primi quindici minuti. Quel che vien dopo è un classico psicothriller, molto angosciante, claustrofobico, ben scritto, che soddisfa il palato di uno spettatore medioalto. Certo, avercene di prodotti come questo che vivificano il mainstream. Ma il futuro non è ancora stato scritto, quindi staremo a vedere cosa realmente accadrà e fin dove si potrà sperimentare cinematograficamente con il telefonino.

Fra le repliche dei film in concorso programmate nel weekend, da non perdere La casa lobo (Sala Scorsese, ore 20), dei registi León e Cociña. Lo spunto per questo film metaforico e inquietante in stop-motion viene dalla storia della setta parareligiosa di Colonia Dignidad, fondata nel 1961 dal pedofilo Paul Schäfer ex Gioventù hitleriana, con base nel sud del Cile. All’interno della colonia, Schäfer inflisse violenze fisiche e morali a praticamente tutti gli aderenti, con il beneplacito del regime di Pinochet.

Sempre sabato (Sala Mastroianni, ore 18) la replica della versione italiana di Mary e il fiore della strega, lungometraggio del padre di Arrietty, Hiromasa Yonebayashi. Prodotto nel 2017, il film segna il ritorno alla regia di un autore formatosi nello Studio Ghibli. Anche in questi 109 minuti si respira aria di classico cinema del fantastico, quindi nulla che faccia gridare al miracolo. Si resta però affascinati da una storia solida, dove i temi dell’amicizia, della crescita attraverso le difficoltà, vengono raccontati dal personaggio della rossa Mary, riuscitissimo ritratto di ragazza combattiva e di grande sensibilità. Si esce dalla proiezione con il sorriso sulle labbra e senza aver mai guardato l’orologio.

Cosa che invece capita con il pur ottimo On happiness road del taiwanese Xing Fu Lu Shang, che racconta il ritorno in patria dopo anni passati a New York di Chi, per i funerali della nonna. La crisi col marito americano, il rinascere di legami affettivi con una vecchia amica sinoamericana e con i genitori, i ricordi d’infanzia, creano un fragilissimo viaggio nella memoria che fosse stato più corto di venti minuti, avrebbe raggiunto pienamente lo scopo. Le parti migliori sono la rappresentazione “lisergica” dei ricordi d’infanzia, veri momenti di incanto per lo spettatore.

Anche lo stupendo lungometraggio francese Les garçons sauvages, opera prima di Bertrand Mandico, pur essendo uno dei film più inusuali proposti durante questo FFF, soffre di una durata eccessiva. Mandico, autore di cortometraggi sperimentali, sembra trovare il tono giusto per una fiaba fantastica quanto malsana, ma non la misura. Per cui raccontare di cinque ragazzi di famiglie altolocate che a inizi del Novecento si macchiano di un crimine efferato e per questo vengono affidati al Capitando di una nave perché li raddrizzi, risulta essere uno spunto intrigante. Altrettanto intrigante è l’amalgama che si viene a creare fra i temi del sesso, della violenza, della morte, della trasformazione portati a un ottimo finale. Ottimi anche i riferimenti visivi ad alcuni maestri del cinema nelle parti girate in bianco e nero. Però Mandico si perde spesso in una autoindulgenza visiva che sfilaccia l’attenzione e penalizza una operazione altrimenti assolutamente inusuale. Comunque sia, da recuperare.

Ancora due suggerimenti per domenica 3 giugno, in chiusura di festival. Alle 15, da non perdere, l’incontro-workshop con Lester Francois, regista di RONE VR, opera presente nel Virtual Reality Contest. Il film è una esperienza immersiva nel mondo dello street artist Rone, autore di grandi ritratti di ragazze creati in genere su muri di stabili abbandonati. Ci si trova a contatto con quelli che sono i suoi luoghi di lavoro come con le sue dichiarazioni sul cosa rappresenta fare arte. Francois racconterà al pubblico le fasi di realizzazione di RONE VR e il suo contatto con l’artista.

Alle 18.15, sala Scorsese, ultima visione per Torrey Pines, del regista transgender Clyde Petersen. Uno stop motion molto vicino a Where it floods di Joel Benjamin nell’uso della tecnica cinematografica. Ma Torrey Pines, oltre a essere ambientato nella California degli anni Novanta e non in un Midwest allagato, è soprattutto un racconto autobiografico dove in sintesi una madre schizofrenica porta a spasso la figlia Clyde, dodicenne in piena crisi emotiva, mentale e alla ricerca della sua identità sessuale. Set perfetto per un dramma familiare, che Petersen racconta però in maniera ironica, senza cancellare le difficoltà di relazione con la genitrice e con se stessa. Magnifico l’uso dei ritagli di carta per costruire scenari e personaggi, che riempie lo schermo di un immaginario capace di mettere subito in relazione emotiva con il racconto. Comunque la si pensi, è un altro cartone animato per adulti che arriva sui nostri schermi grazie a questa ventesima edizione del Future Film Festival.