Sergio Vacchi, il pittore che poteva far a meno dei galleristi

La grande retrospettiva curata da Marco Meneguzzo riporta in primo piano la figura di un artista visivo fra i più importanti del secondo Novecento italiano. Coerente con le sue ossessioni pittoriche, libero dai ricatti dei commercianti d'arte.

sergio vacchi dettaglio di solitudine di chet baker

Cosa: mostra “Mondi Paralleli” di Sergio Vacchi Dove: Palazzo Fava, Via Manzoni 2 Quando: 28 settembre – 25 novembre 2018 Orari: Martedì: 10.00 – 19.00 Mercoledì: 10.00 – 19.00 Giovedì: 10.00 – 19.00 Venerdì: 10.00 – 19.00 Sabato: 10.00 – 19.00 Domenica: 10.00 – 19.00 Costo: open 10 €, intero 8 € e ridotto 5€ Info: https://genusbononiae.it


Una vena di follia visionaria attraversa la famiglia Vacchi da generazioni.
Quando si presenta come libertà creativa, artisticamente produttiva, capace di visionarietà e bellezza, eccola colpire positivamente di rimando tutti noi.

Qui parliamo di Sergio Vacchi, artista visivo fra i nomi di punta degli anni Cinquanta e Sessanta.
Maestro di quello che viene definito “Ultimo Naturalismo” da Francesco Arcangeli, oggi l’opera di questo pittore, capace di non legarsi al mondo dei galleristi e di restare puro nel suo intento artistico, viene proposta al pubblico in Mondi paralleli, mostra antologica curata da Marco Meneguzzo.

Ospitata negli spazi di Palazzo Fava, via Manzoni 2 Bologna, la retrospettiva (oltre cento opere fra grandi tele, ritratti e autoritratti) si estende per due interi piani.
Aperta il 28 settembre scorso e in chiusura per il prossimo 25 novembre non è una mostra esaustiva – non sarebbe possibile, vista la quantità di opere prodotte da Vacchi, ugualmente percorre con puntualità tutte le età creative del pittore, con una divisione secca fra grandi tele e la ritrattistica. Lo sforzo portato avanti da Meneguzzo, e che ben si evince anche nel catalogo omonimo pubblicato da Skira (pp. 144, € 29), arricchito dagli interventi di Renato Barilli e Flavio Caroli, tende però soprattutto a proporre dell’artista bolognese “una rilettura in chiave non più padana o bolognese, ma internazionale, pensando al suo lavoro come al lavoro di un artista isolato ma di genio, capace di dialogare coi grandi pittori e gli intellettuali della sua epoca”.

Quanto Meneguzzo propone nelle sale di Palazzo Fava segue questa interpretazione, pur essendo come detto una piccola porzione significativa delle opere che Vacchi, nato a Castenaso nel 1925 e spentosi a Roma nel 2016, ha prodotto indefessamente durante la sua lunga carriera. Non per nulla il curatore lo definisce come “un artista compulsivo, che o produceva tre opere al giorno o stava male”, è però indubbio che la possibilità di non doversi piegare al volere dei galleristi gli abbia permesso di scavare a fondo nelle sue ossessioni visive senza vincoli, obblighi, imposizioni. Quella che Meneguzzo definisce “necessità vitale” per il pittore, “una ossessione”, anche uno svuotarsi di energie altrimenti letali, si può spiegare (soprattutto) così. E qui sorge spontanea la domanda sul quanto una serenità economica in un animo disposto al fare, al produrre, possa regalare immensi spazi di creatività. E ancora, cosa possa essere l’arte slegata dalla necessità di sopravvivenza, ma immersa in un mondo di relazioni intellettuali. Domande che qui vengono poste, ma per rimanere tali. Anche se Vacchi ne rappresenta di per sé la risposta migliore.

Basta pensare al suo trasferimento romano nel 1959 e lì alla frequentazione di personaggi quali Paolo Volponi, Goffredo Parise, Giuliana Calandra, Vittorio De Sica, Renato Guttuso, Federico Fellini e altri ancora. Sono porte che si aprono su altrettanti mondi di relazione e hanno prodotto interesse verso l’opera del pittore emiliano. Porte attraverso cui si muovono i collezionisti e gli appassionati. Cosa che per esempio porta Vacchi a vendere ben centodieci tele a Carlo Ponti e Sofia Loren, negli anni Settanta.

Come detto, in un animo disposto propositivamente all’arte e libero di agirla, denaro chiama probabilmente denaro con maggiore facilità. Con il rischio di perdere le coordinate. Cosa che non è mai accaduta a Sergio Vacchi, il cui lavoro di estroflessione della propria visione interiore ha proseguito indefesso fino agli ultimi istanti di vita.

Lo si vede bene in Mondi paralleli, dove il lavoro di Meneguzzo mette in ordine cronologico oltre sessant’anni di lavoro che spazia dal 1948 al 2008, evitando incursioni massicce nell’informale, per dare spazio invece alle “grandi opere visionarie” erroneamente definibili come metafisiche.

L’unica deroga a questo ordine la si trova al primo piano, nel salone centrale. Lì le opere si muovono dal 1952 agli anni Settanta. Scelta necessaria per mostrare sia la capacità narrativa di Vacchi – immersa in un’atmosfera cupa e nebbiosa, prossima ai notturni barocchi e alle scenografie di Fellini o a certa espressività seicentesca – sia per far dialogare le sue grandi tele con gli affreschi del Carracci.

Lo spazio diventa un ambiente in cui precipitar dentro una duplice capacità affabulatoria del pittore. Ma dentro anche “una uniformità cromatica e attitudinale”, riverberata dai grandi pannelli che narrano cinematograficamente, descrivono atmosfere sospese. “Queste tele diventano scene, ti fanno entrare nel quadro” dice ancora Meneguzzo. “Quindi, sì, realismo magico. Ma lette oggi, sono atmosfere che entrano persino in contatto col fantasy”. Intuizione perfetta e perfettamente realizzata. Anche perché mostra come l’importanza del lavoro di questo pittore stia nell’essere vicino ad altri strumenti visivi, quali cinema e fumetto, a volte anticipando quanto oggi ci appare normalità.

Capacità che non gli ha giovato” sottolinea Meneguzzo. “Eravamo pur sempre in Italia durante gli ultimi decenni del Novecento”, vigeva una sorta di disciplina da cui discostarsi era letale. Linea che adesso si è allentata o almeno dovrebbe. Tanto che si può tentare un recupero della visione artistica di Vacchi appunto in ottica internazionale: “Mi sono chiesto se ci potrebbero stare, le opere di Vacchi, dentro la Tate, a Londra. Credo proprio di sì, e sarebbero viste con attenzione oltre che con curiosità”.

Altra ottima intuizione è l’aver creato la quadreria del secondo piano, giustapponendo ritratti e autoritratti, ideali e non, realizzati dal pittore a partire dal 1965. Una galleria non solo di amici e autori amati da Vacchi, ma anche un percorso di infingimenti dove l’autore diventa egli stesso il suo amico, il suo maestro, il suo mito. Alle pareti trovano spazio Samuel Beckett, Otto Dix, Arcangeli, Bacon, Kafka, due bellissimi ritratti speculari di Virginia Woolf e tanti altri ancora dove l’uso degli smalti e dei colori metallici appare superlativo.

Incontriamo più volte Greta Garbo, ossessione vacchiana per eccellenza, che nei ritratti diventa secondo Meneguzzo “una specie di allegoria”, l’attrazione dell’artista per l’incarnazione della Sfinge come sempre si è presentata questa attrice. La quadreria rende inoltre chiara l’“ossessione moderna” che animava Vacchi, quella cioè di crearsi una famiglia ideale entro cui sentirsi accolto.

“Un artista ha diritto di scegliersi i propri padri, i propri familiari” afferma Meneguzzo. “Lui se li sceglie. E la sua dichiarazione d’amore nei loro confronti sta nel continuare a disegnarli a inserirli nelle sue tele”, facendoli propri.