Ascoltare la parola

A dieci anni dalla morte, Una antologia ripercorre il lavoro poetico di Roberto Roversi

COSA: Presentazione antologia Non isolarsi ma ascoltare (Pendragon) DOVE: Sala Stabat Mater, biblioteca Archiginnasio, piazza Galvani 1, Bologna QUANDO: 14 settembre, h. 17.30 CHI: Antonio Bagnoli, Marco Antonio Bazzocchi, Marco Giovenale, Matteo Marchesini, Fabio Moliterni INGRESSO: Libero

Dieci anni fa, il 14 settembre 2012, ci lasciava Roberto Roversi, forse l’ultima fra le figure più rappresentative della cultura italiana del Novecento. Poeta ed intellettuale capace di allontanarsi dal mercato della cultura per avere la totale gestione del suo lavoro e delle sue opinioni, Roversi è stato per questo anche uno dei più appartati fra i nomi che compongono il pantheon letterario d’Italia.
Eppure, proprio il suo allontanarsi dai sensori dei mass media, ha permesso a Roversi «di osservare in modo del tutto indipendente da ogni potere le grandi trasformazioni sociali vissute in Italia nel corso della sua vita» come l’editrice bolognese Pendragon scrive in apertura di Non isolarsi ma ascoltare, in libreria dal prossimo 16 settembre. Chi però volesse conoscere l’ampiezza del lavoro letterario roversiano può da subito collegarsi al sitowww.robertoroversi.it dove Pendragon e il suo patron, Antonio Bagnoli, ha inserito tutti i suoi testi lasciandoli alla libera consultazione.
Antologia agilissima, Non isolarsi ma ascoltare, prende come suo focus solo il lavoro poetico di questo autore, concentrandosi su quattro momenti della sua produzione. Ognuno di essi è introdotto dalla voce di un nome rilevante della odierna critica letteraria italiana, sia universitaria che “eretica”: Marco Antonio Bazzocchi, Marco Giovenale, Matteo Marchesini, Fabio Moliterni.
Saranno loro, domani 14 settembre alle ore 17.30, a presentare in anteprima l’antologia al pubblico, presso la sala dello Stabat mater della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna.
Le voci dei quattro autori, insieme a quella di Antonio Bagnoli, andranno a ricostruire l’arco storico, politico e letterario in cui si è mosso Roberto Roversi dagli anni Cinquanta al nuovo secolo, da Dopo Campoformio via Le descrizioni in atto e fino a L’italia sepolta dalla neve, con l’inclusione dell’attività sui fogli letterari.
Per comprendere meglio l’importanza dell’opera di Roversi, abbiamo contattato Marco Giovenale, poeta e critico di area romana oltre che uno dei curatori di Non isolarsi ma ascoltare.
Cosa può comunicare a chi scrive oggi, l’opera di Roberto Roversi, compreso il suo“rifuggire” dal mercato editoriale?
«Nella domanda c’è in parte anche la risposta. È singolare come si siano trovate/riconosciute fraterne, e come e quanto si assomiglino oggi, in qualche modo, le istanze pratiche di una scrittura contemporanea definibile “di ricerca” e il rigore di Roversi nel tenere lontano dalla propria attività letteraria ogni cedimento al rumore della distribuzione (prima ancora che dell’editoria) mainstream.
Roversi – in anticipo su tutti o su moltissimi – ha decifrato fin dall’inizio degli anni Sessanta tre segni dell’epoca: ha capito come l’editoria si sarebbe evoluta, o meglio involuta; ha sentito quanto fosse urgente per le opere arrivare, con tutti i mezzi necessari, al lettore piuttosto che semplicemente allo scaffale; e ha previsto in quali gabbie intellettuali rischia di cacciarsi l’autore che davvero intende affidarsi ai meccanismi di una industria culturale sempre più vicina se non coincidente con la sagoma dello spettacolo della cultura.
Arrivare alle persone, ai lettori, era stato – è sempre stato – il suo primo intento, del resto: dalle copie ciclostilate de Le descrizioni in atto in avanti. Credo che l’intuito di Roversi e la prassi di Antonio Bagnoli e di Pendragon, in questo senso, siano in totale sintonia, vedendo per esempio come il sito www.robertoroversi.it funziona nel raccogliere e rendere liberamente disponibili via via tutti (o quasi tutti) gli scritti roversiani.»

Lei parla di prassi…
«Sono partito dalla prassi, prima ancora che dalla poesia, perché non penso possano essere più di tanto (o affatto) separabili, i due termini.
La prassi di Roversi nel diffondere i propri scritti è chiara. Venendo al suo lavoro poetico, direi che tra i suoi insegnamenti maggiori c’è l’apertura alle testualità più diverse, meno imbrigliate, più altre e se vogliamo perfino eretiche (era un eretico il dedicatario dei suoi libri, Tommaso Campanella, d’altro canto). Quindi agli autori ancora oggi la sua opera dice: nessun timore nel confrontarsi, anche in modo energicamente dialettico, con materiali letterari della più diversa origine, senza smettere di interrogarli attraverso il filtro dell’esperienza concreta, materiale, tattile, individuale.
Questo porta a un ulteriore insegnamento, che riguarda sempre chi scrive: l’ascolto, la curiosità, l’apertura a stili e modi e poetiche diverse, anche assai lontane dalla propria. Credo che di non poca stima, in questo senso, Roversi fosse fatto oggetto da parte di Giuliano Mesa, quando era a Bologna per la fine degli anni Novanta, Mesa avvia l’iniziativa di letture condivise, incontro e antologia di testi che va sotto il nome di Ákusma.
Il termine, tradotto, significa: “Ciò che si ode”… Questa antologia pubblicata da Pendragon si intitola Non isolarsi ma ascoltare, che è appunto un motto fondamentale in e per Roversi.»

Nella nostra epoca dove rapidità e fluidità hanno sostituito praticamente tutti i valori etici e politici, questo del negarsi alla grande editoria, ma anche del negare la propria immagine ai media, può avere ancora un significato?

«Forse la negazione radicale va spostata, e precisata, da parte degli autori, avendo come oggetto primario lo spettacolo.
È cosa sempre più difficile, perché quegli stessi luoghi e possibili interlocutori (e le stesse reti) che aprono ad azioni di eticità, di comunicazione critica e di sabotaggio del già noto o del falso, non mancano affatto di intrecci con quanto spinge in direzione contraria.
Esiste perfino nei canali di massa una condivisione non spettacolare del sapere (penso a un buon numero di trasmissioni radio, per esempio), ma le cautele che si mettono in campo per allacciare rapporti di dialogo o collaborazione non sempre sono sufficienti a evitare passi falsi.
E penso anche ai molti festival che in Italia negli ultimi anni si moltiplicano, diffondendo non a caso una immagine codificatissima, statica della letteratura, e una idolatria della banalità e del kitsch che ha pochi precedenti, anche nelle infelici stagioni degli anni Ottanta e Novanta.
Contro questa ingegneria della stasi (spettacolare) può valere ancora la pratica della sottrazione della propria persona e della propria opera; così come può aver senso la costruzione di (o la partecipazione a) zone temporaneamente autonome in cui esercitarsi a pensare una letteratura diversa, magari più difficile, aperta sì ma non vulnerabile.»

Quale legame unisce la sua scrittura a quella di Roversi, nella loro almeno apparente distanza?

«Mi piace pensare che le mie siano scritture, al plurale, e che proprio le differenze siano il valore che Roversi ha insegnato ad apprezzare, ad extra come ad intra.
Del resto lui stesso è stato un maestro della messa in crisi, della creazione di inciampi, ostacoli interni e sgambetti (direbbe Carmelo Bene) allo stile: non so immaginare opere più lontane tra loro di Registrazione di eventi e I diecimila cavalli; o Le descrizioni in atto e praticamente quasi tutto quel che Roversi ha scritto prima e dopo.
Ecco, forse, anzi sicuramente, un’altra qualità che ha trasmesso ai suoi lettori è la disponibilità al (la valorizzazione del) cambiamento. Fermi restando alcuni punti etici imprescindibili.
In questo senso non posso non tornare a fare il nome di Giuliano Mesa e della sua poesia (che inizia con Schedario, pubblicato da Spatola alla fine degli anni Settanta, e si avvia a conclusione con Tiresia, uscito per una assai roversiana associazione culturale che si chiama La camera verde, al principio del nuovo millennio. Due opere che si stenta ad attribuire alla stessa mano).
La domanda mi mette oltretutto in condizione di precisare qualcosa a cui tengo molto. Accogliendo una mia lunga prosa nell’ultimo numero pubblicato di “Rendiconti”, nel 1997, Roversi in qualche modo credo riconoscesse e apprezzasse un tipo di sperimentazione che non poco doveva, in quel periodo, alle sue Descrizioni in atto (uscite quasi trent’anni prima).
Questo, secondo un registro “espressionista” non separato da una mia tentata, cosciente, e al tempo forse immatura, mimesi di disastro linguistico: un sistema di microfratture e frizioni tra significanti, in forma di critica all’addomesticamento di qualsiasi scrittura che voglia misurarsi col contesto sociale effettivo, a “trasformazione antropologica” avvenuta e assestata.»

Dei quattro punti focali dell’opera di Roversi di cui tratta l’antologia, lei lavora sul lunghissimo poema de L’Italia sepolta sotto la neve. A suo modo di vedere, è possibile pensarlo come un’opera aperta, seminale, capace di proliferare, oppure è a tutti gli effetti l’esito felicissimo (ma finale) di tutto il pensiero politico e sociale di Roversi in forma di poesia?

«Mi sentirei di dire che solo il tempo (che comunque, lo sappiamo dallo stesso Roversi, “getta piastre nel Lete”) potrà precisare meglio quale di queste due ipotesi sia più fondata.
A mio modo di vedere, l’opera ancora oggi più aperta e plastica di Roversi è senz’altro Le descrizioni in atto, non a caso in dialogo dialettico, assai intelligentemente, con la neoavanguardia.
Il tempo però un’altra cosa ha fatto: ha permesso a Roversi di chiudere il poema interminabile, forse sentendo arrivato il momento di distogliere l’attenzione dal “freddo perenne” (per usare un’espressione di Cosimo Ortesta), dal troppo lungo seppellimento sotto la neve (che è infatti anche una semina, e dunque prevede un ciclo di ulteriori rinascite e ulteriori nuove morti).
Beninteso, Roversi al poema affidava fin dall’inizio un intento anzi un’intonazione tutt’altro che pessimistica. Ecco, credo che la natura metamorfica, fluviale del testo sia uno dei suoi aspetti più interessanti – e rilavorabili da parte di nuovi autori.»

Prendendo un altro lavoro roversiano, importantissimo per la poesia del nostro Novecento, quale è Le descrizioni in atto, quali sono a suo avviso le differenze sostanziali con L’Italia sepolta sotto la neve? Dove avviene se avviene uno scavalcamento (nel linguaggio, nel pensiero, nello stile)?
«Una qualche felice eccedenza (che è anche eccellenza) del parlato, oltre che assemblaggi da varie fonti, sono tra i caratteri di spicco delle Descrizioni in atto. Così come uno stile forse più monologico (ma non centripeto) innerva L’Italia sepolta sotto la neve.
Ma la gradezza di Roversi sta anche nell’essere – come ho accennato – produttivamente diverso da sé stesso, in tutte le opere che scrive; riconoscibile e differente a un tempo.
In fondo anche Le descrizioni in atto è un poema, pur se radicalmente frammentario ed esploso; così come una forma di frammentazione si può riconoscere nei vari momenti dell’Italia sepolta sotto la neve, pensando proprio alle varie parti, ai libri che costituiscono il poema, usciti separatamente nel corso degli anni.
Forse il tratto maggiormente intrigante dell’ultima opera è – non a caso – proprio quello che a mio parere più la lega al clima destrutturato delle Descrizioni: il libretto pubblicato da Angelo Scandurra per le sue Edizioni del Girasole nel 1989. Non a caso nel 1990 esce – per Coop Modem e come quaderno del periodico “Lo Spartivento” – una edizione a stampa, ennesima e importantissima, delle Descrizioni. La vicinanza temporale non sarà del tutto un caso.
In fondo tutte le opere di Roversi si parlano. Sostanzialmente perché lui riesce a farle dialogare tanto con il tempo storico quanto con noi che leggiamo, fin da quando prende in mano la penna. Non saprei dire come, ovviamente, ma il collante intertestuale delle opere di Roversi non è solo stilistico: risiede pure, in una forma o “tono” che solo lui sapeva articolare, nel movimento delle pagine da e verso i lettori (che spesso sono anche scrittori).
L’opera di Roversi è così, in qualche modo, una collettività, un parlarsi di voci, non un banale testo collettivo (cosa troppo meccanica). Semmai proprio una società, una zona libera, autonoma forse non solo momentaneamente.

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