È solo la fine del mondo: Xavier Dolan svuota il dramma familiare

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La recensione del film vincitore del Grand Prix a Cannes, in sala a dicembre

 

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Cosa: Juste la fin du monde, It’s Only the End of the World, È solo la fine del mondo, recensione in anteprima
Protagonisti: Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel
Regia: Xavier Dolan, 2016
Quando: in sala dal 7 dicembre 2016 

di Aldo Trucchio

 

“Nu ma nu ma iei, nu ma nu ma iei, nu ma nu ma nu ma iei” è uno dei ritornelli estivi che preferiremmo toglierci dalla testa e che invece restano incancellabili, al pari di un riflesso, una fobia o un istinto. Parrebbe strano trovarlo ad accompagnare uno dei rari momenti gioiosi del nuovo film di Xavier Dolan ma…

La recensione del film vincitore del Grand Prix a Cannes, in sala a dicembre

 

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IN BREVE Cosa: Juste la fin du monde, It’s Only the End of the World, È solo la fine del mondo, recensione in anteprima Protagonisti: Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel Regia: Xavier Dolan, 2016 Quando: in sala dal 7 dicembre 2016

 

di Aldo Trucchio

 

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“Nu ma nu ma iei, nu ma nu ma iei, nu ma nu ma nu ma iei” è uno dei ritornelli estivi che preferiremmo dimenticare e che invece restano incancellabili al pari di un riflesso, una fobia o un istinto. Parrebbe strano trovarlo ad accompagnare uno dei rari momenti gioiosi del nuovo film di Xavier Dolan. Ma, a ben pensarci, è perfetto per un film che parla della famiglia. Perché non ci si può fare niente, la famiglia è un ritornello: gesti irrazionali, immotivati, scene già viste, racconti già sentiti, discussioni e litigi che si ripetono sempre secondo lo stesso canovaccio, ma che non si possono evitare, che non si riesce a cancellare dalla mente in nessun modo.

Non si conoscono, ma si intuiscono, i motivi che hanno portato il protagonista di È solo la fine del mondo ad allontanarsi da casa. Il regista racconta il suo ritorno mettendo in scena due tipiche fantasie adolescenziali: quella di mandare tutti a quel paese, avere successo e tornare a sbatterlo in faccia ai genitori e ai fratelli. E quella di annunciare la propria morte – perché, alla fine, ci piace pensare che sono gli altri ad avere bisogno di noi e che, nel nostro sottrarci, saremo più amati.

Nello stesso tempo, però, al centro del film c’è anche la peggiore angoscia del figliol prodigo, emigrato o scappato che sia: tornare a casa e ritrovarsi immerso nelle vecchie dinamiche familiari. Peggio: farsi rinfacciare da chi è rimasto di non aver visto i bambini crescere, di non essersi sorbito i vecchi, insomma di essere solo un egoista. Ancora peggio: ritrovarsi a piangere sentendo il profumo della mamma o accarezzando il materasso sul quale si era soliti scambiare canne e abbracci col primo amore.

Dolan filma scene collettive inframmezzate da dialoghi – si tratta di un adattamento della pièce omonima di Jean-Luc Lagarce – cercando esplicitamente il senso di oppressione di un huis clos, ma nello stesso tempo operando poche e semplici scelte di regia che gli permettono di trasgredire le regole del teatro filmato. Gli spazi sono angusti, la casa in cui il film è ambientato appare troppo piccola per contenere i cinque protagonisti. Solo il viso o al massimo la nuca degli attori sono inquadrati, e non viene utilizzato il campo-controcampo, ad accentuare l’atmosfera soffocante del film. Non c’è un fuori, l’esterno è nascosto da tende, vetri smerigliati o dal fuori fuoco – tranne che in un paio di aperture, dei ricordi, che assomigliano quelle presenti nel film precedente del regista, Mommy – una delle quali appunto accompagnata dal motivetto rumeno succitato.

Il figliol prodigo appare sopraffatto: è tornato per parlare, per chiarire, addirittura per annunciare la propria morte imminente, ma non riesce a dire che poche parole, durante un pranzo in famiglia che sembra durare un’eternità, scandita dall’orologio a cucù kitsch che si trova all’ingresso della casa e dal vecchio orologio da polso d’oro del protagonista, spesso inquadrato, ma del quale non si sa niente. Così prende forma un melodramma nel quale tutti gli attori calcano troppo la loro parte – cosa che aveva attirato non poche critiche a Cannes dove, però, un saggio George Miller ha tenuto a far avere al film il Grand Prix.

È sempre incazzatissimo il fratello maggiore Vincent Cassel, quanto docilissima sua moglie Marion Cotillard. Un’adolescente fuori tempo massimo la sorella minore Léa Seydoux, svampita, troppo truccata – e meravigliosa – la madre Natalie Baye. È bello quanto rintronato il protagonista Gaspard Ulliel. Cassel, più degli altri, è totalmente fuori controllo: rivolge le spalle al pubblico, sfugge alla macchina da presa, interviene continuamente – e a sproposito – negli scambi degli altri attori, divenendo così il segno più manifesto di un film che non vuole narrare o mettere insieme, ma piuttosto lasciar esplodere i sentimenti e, forse, la stessa narrazione cinematografica.

Per quanto si tratti della storia di una famiglia, difatti, non ci troviamo di fronte a un dramma borghese, perché non c’è nessuna sintesi finale. Non si regolano i conti in sospeso, non ci si riappacifica, ma nemmeno si sprofonda nella tragedia. Gli scambi, i rapporti e le interazioni tra gli attori sono improntati alla semplice ripetizione. I caratteri rappresentati sono: chi urla e si scusa, chi insulta e fugge, chi tace, chi mormora e sorride, chi si accende una sigaretta. Non c’è storia, non c’è narrazione, non c’è nessuna spiegazione su come si siano instaurate le dinamiche familiari messe in scena.

Infine, all’improvviso, un’accecante quanto irrealistica luce del tramonto annuncia la fine del film. Nulla è cambiato: la famiglia è un ritornello che non ti passa dalla testa, e non ci puoi fare niente.

7 ottobre 2016

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