COSA: La macchia di inchiostro, film documentario CHI: regia di Ciro Valerio Gatto DOVE: venerdì 4 giugno al Biografilm 2021
Parte da un ritrovamento, La macchia d’inchiostro, documentario ibridato con la fiction che cerca di catturare almeno una parte di quel che è stata la figura di Roberto Roversi.
Per chi non lo sapesse Roversi è stato uno dei maggiori poeti del Novecento, uno fra i più appartati, ma uno dei più rigorosi nell’analizzare gli eventi e sconvolgimenti del secolo passato. Ma non è stato solo questo. Più si leggono i suoi interventi politici e letterari, più si comprende la sua grandezza come pensatore.
Eppure c’è da dire che chiunque abbia avuto il piacere e l’onore di entrare in contatto con lui, sa quanto davanti ci fosse sempre l’uomo, con la sua curiosità e la sua cortesia, prima del poeta e dell’intellettuale. Quelli venivano dopo, venivano sempre dopo, quando lo andavi a cercare nella sua libreria, sommerso da riviste e fogli e piccole tirature di preziosi volumi.
Vien fuori anche questo da La macchia d’inchiostro, opera prima di Ciro Valerio Gatto, che intrama testimonianze di amici e di studiosi alternandole alla prima messa in scena di un’opera teatrale scritta appunto da Roversi.
Omaggio partecipe e attento, il documentario di Gatto viene proposto questa sera al pubblico del Biografilm festival 2021, alla presenza del regista e della produzione.
A ospitare in prima visione assoluta la proiezione, prevista per le 21.30, saranno gli spazi evocativi del Chiostro del Complesso di Santa Cristina “della Fondazza”, in piazzetta Morandi 2.
Per quanto riguarda, l’opera teatrale La macchia d’inchiostro essa aveva trovato la via della pubblicazione nel 2006, per le edizioni Pendragon, trent’anni circa dopo la sua stesura. Ma non la via del palcoscenico. Ora, a nove anni dalla scomparsa dell’autore, avviene quello che possiamo definire come un completamento. Che avviene grazie anche alla nipote Caterina.
Ma la pièce è solo il pretesto attraverso cui Gatto si muove per raccontare, in circa un’ora di montato, cosa è Roberto Roversi. Attenzione, non cosa è stato. Perché, come dice Alessandro Bergonzoni: «Siamo abituati a vedere qualcuno che se non c’è, non c’è. Invece lui c’era ma non lo vedevi. Lui appariva quando non c’era. Lui c’era anche quando era via. Lui c’è adesso».
Non sono parole che compongono un grazioso nonsense, ma la verità. Fanno inoltre da apripista a quello che dal documentario viene fuori lentamente, ma perentoriamente. Ovvero la capacità di Roversi di comprendere l’aria dei tempi e di gestirne la sua evoluzione.
Come dicono, fra gli altri, il critico e scrittore Matteo Marchesini e il nipote ed editore Antonio Bagnoli, Roversi comprende già negli anni Sessanta il valore enorme del controllo dei mezzi di comunicazione in ambito culturale e non solo.
La sua scelta radicale, a partire da quel decennio, di non pubblicare più con grandi marchi editoriali quali Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, di mantenersi lontano dallo spettacolo della letteratura e da qualsiasi compromesso con la cultura ufficiale, di rifiutare la sua immagine per eventi pubblici, non è perciò un atteggiamento elitario, ma una grande intuizione. Che diventa la “coraggiosa ricerca di una strada alternativa, talvolta ai limiti della clandestinità, per salvaguardare e mantenere integra la propria libertà espressiva e intellettuale”.
L’idea che Roversi persegue è quella di non farsi travisare il pensiero né di farsi schiacciare dal sistema di produzione e distribuzione. Ecco perché, da quel momento in poi, si autoproduce e diffonde autonomamente i suoi lavori. È un antesignano di quanto poi esplode e si radica per i due decenni successivi soprattutto nel panorama musicale indipendente.
Anche per questo ne La macchia d’inchiostro compare la figura di Paul-Louis Courier. Lo scrittore francese, che vive circondato dai libri (proprio come Roversi), è stato “uno dei maestri di mio nonno” dice Caterina Roversi, “il cui impegno e la lotta per la libertà di espressione contro gli attacchi e le censure sono stati un faro e un esempio per tutta la sua vita.”
Da un evento che ha al centro questo scrittore, discende il titolo della pièce, che Gatto mette in scena nell’operato di una compagnia di entusiasti attori non professionisti.
A questa si deve aggiungere la figura di un grande pensatore, Tommaso Campanella. «Una sorta di alter ego per Roversi» afferma Mattia Fontanella.
Da lui probabilmente viene l’idea dello stare fuori per stare dentro le situazioni perché «se stai ai margini riesci a vedere il cuore delle cose».
Ecco il modus operandi che Roversi attuava: un restare all’esterno, ma essendo sempre al centro, all’interno, della comunicazione.
Questa è solo una parte di quanto intellettuali e scrittori raccontano durante La macchia d’inchiostro. Il documentario di Gatto si mostra attento a offrire allo spettatore un ragionare composito su un autore immenso, ancora tutto da scoprire. Poco consumato, verrebbe da dire. Ma proprio grazie alla sua azione appartata, alla distribuzione calibrata del suo pensiero e quindi della sua opera.
Gatto inserisce nel flusso di interventi anche la voce di Roversi, che diventa così un contrappunto capace di chiosarli, puntualizzarli, anche di aggiungere elementi per meglio far comprendere il suo pensiero.
Sentirlo così, come da un altrove, appunto, “dai margini”, ma tanto preciso, puntuale nel suo dire, mette i brividi. Diventa la sua voce il vero volano del documentario.
Marchesini, Bagnoli, Jemma e tutti gli altri testimoni che, con i loro interventi, cercano di circoscrivere il lavoro di questo autore possono solo darne una traccia. Questo perché, crediamo, la sua scelta intellettuale e umana di lavorare, vivere in maniera apparentemente appartata lo hanno preservato dall’essere divorato con feroce frenesia. Come sottolinea con forza Bergonzoni in un passaggio de La macchia d’inchiostro «Roberto Roversi deve ancora scoppiare, deve ancora venir fuori, deve ancora essere letto, deve ancora essere scritto, deve ancora essere parlato, deve ancora essere recitato». È un autore che può parlare alle generazioni più recenti perché «ha lasciato lo sconosciuto, ha lasciato il mistero, ha lasciato il segreto». Ha lasciato soprattutto l’indicazione di mantenere autonomo il proprio pensiero, di non venderlo, di non svilirlo.