Buchi nel Vento: le poesie di Bernard Friot mettono in scena sentimenti forti, con estrema grazia

Tradotta da Matteo Marchesini, l'ultima produzione dell'autore crea esili e a volte disturbanti bolle di sapone

Cosa libro di BERNARD FRIOT, AURÉLIE GUILLEREY. Buchi nel vento. Poesie a passeggio, Lapis edizioni, 2020 Chi intervista al traduttore Matteo Marchesini

Doveva essere una delle presenze più interessanti della Fiera internazionale del libro per ragazzi 2020, che è saltata insieme a varie altre cose. Peccato perché Bernard Friot, scrittore, poeta, traduttore francese, è una delle penne migliori, più sensibili e geniali nel panorama della letteratura per ragazzi. Ne aveva dato prova negli anni, sorprendendo nel 2019 con l’uscita di Un anno di poesia per Lapis Edizioni, illustrato da Herver Tullét.

Ma un pezzettino di Friot è comunque approdato a Bologna. Lo ha fatto attraverso il cartonato Buchi nel vento. Poesie a passeggio (pp. 80, € 14.50), breve raccolta di poesie dedicate a “lettori liberi, autentici e giocosi”, uscito in Italia sempre per Lapis Edizioni. Per essere precisi, lo ha fatto attraverso la traduzione del bolognese Matteo Marchesini, meglio conosciuto in Italia come critico, saggista e scrittore. Abbiamo incontrato Marchesini proprio per parlare di questo suo lavoro di traduzione che propone trentasei poesie illustrate dalle tavole di Aurélie Guillerey, non proprio tutte riconducibili a una fascia di età fra gli otto e i dodici anni. Certamente dedicate a lettori liberi e autentici, come recita la quarta di copertina, ma non sempre a quelli giocosi.

«Non conosco abbastanza la letteratura francese né conosco abbastanza il lavoro in poesia di Bernard Friot per poter affermare quanto suggerisci» dice Marchesini. «Credo però che esistano dei libri felicemente fruibili da zero a novantanove anni, come è scritto sulla confezione di alcuni giochi. Essendo “stratificati”, parlano a tutti. Restano estremamente densi dal punto di vista linguistico, tematico ecc., però li può fruire tranquillamente anche chi ha alle spalle meno risorse, meno riferimenti culturali. Ecco, questa è una delle ragioni della bellezza di Buchi nel vento. Posso comunque essere più specifico se ti riferisci ad alcuni testi in particolare…»

Per esempio in Non ancora

«Quel testo a mio avviso si fa manifesto del tema che corre sottotraccia in tutto il libro di Friot: quello della libertà, dell’autodeterminazione. Come si renderà conto il lettore, ci sono diverse poesie che riflettono una situazione di ribellione, di non pacificazione, in cui la ragazzina o il ragazzino trovano una specie di libertà nel dire “Scelgo io chi essere, scelgo io dove andare, scelgo io in cosa trasformarmi”.

In effetti è un motivo forte di Buchi nel vento. Nella poesia che indichi, posta in sottofinale nel libro, il motivo diventa fortemente esplicito. Inoltre è un testo che definirei “universale” perché parla dell’identità umana: non lo vedrei quindi come un tema confinabile a una fascia di età.

Mi pare che il libro, forse più che altrove nella produzione di Friot segua un dettato vicino a quello di Rodari.

«Anche qui metto le mani avanti perché non conosco sufficientemente la letteratura per ragazzi da potere far paragoni, la conosco appena un po’. Forse capisco quanto vuoi dire. Ho però questa percezione di Rodari, come di un autore più didascalico rispetto a Friot. E questo va da sé. D’altra parte lo trovo molto più “sonante” nei testi. La lingua di Friot e il suo modo di comporre lo portano a scrivere testi che sembrano esili come bolle di sapone. Si ha la sensazione che se li tocchi, si possano sciogliere. La loro grazia impalpabile sta in questo. Una cosa per certi versi distante da quella di Rodari, secondo me.

È vero che c’è probabilmente un seme, un carattere riferibile al didascalismo, ma Friot qui mostra di credere dell’autodeterminazione. Ciò significa avere fiducia nel lettore, dare ai testi una specie di tono corroborante capace di dire al lettore “su, fai, vivi, inventa”. Indubbiamente questo lo si trova anche in Rodari, pur sotto tutt’altro cielo ideologico.»

Sono poesie che tendono ad avere un forte scatto vitalistico e creare immagini, continuo a pensare, non sempre per ragazzini. C’è una costante presenza di elementi concreti, che allontanano il testo da una composizione classica, pacificante. Per esempio, in Storia d’amore troviamo la presenza di un coltellino svizzero, che viene piantato nel cuore, quindi è metaforicamente “mortale”.

«Verissimo. Friot ha una mano molto felice quando tratta, senza farlo apparentemente notare, dei sentimenti più violenti e più forti: la grande paura, la passione, la rabbia. Sicuramente ha dietro una tradizione che molti autori, Rodari compreso, utilizzano, ma per lui è qualcosa di “nazionale”.»

Ovvero?

«La tradizione del surrealismo. A volte il surrealismo diluito in altri liquidi poetici, lo aiuta a essere insieme molto intenso e al contempo molto giocoso.»

Qualcosa di simile accade anche in Se mi prendi la mano, con l’immagine del ratto, che ringhia e mangia la milza. Una immagine molto forte, disturbante. Mi ha ricordato immediatamente Primo amore, ultimi riti, uno dei racconti giovanili di Ian MacEwan.

«Dove c’è la presenza disturbante di una ratta. Ma citare nella poesia questo animale, dà proprio l’idea dei sentimenti che si mischiano. Sempre di surrealismo però andiamo a parlare. Diluito, ribadisco, e a volte incrociato con altre esperienze. Direi anche nel modo in cui Friot tende a dislocare il testo sulla pagina, nel modo in cui costruisce il verso, nel modo di aprirlo, di scomporre il ritmo. C’è questa grande libertà, questa anarchia, da interpretare guarda caso come autodeterminazione. Da non dimenticare come il surrealismo sia anche la patria del tutto è possibile. E la poesia che hai citato parla ancora una volta di un sentimento forte, che rischia di farti esplodere o implodere.»

Come ti sei trovato nell’approcciare i testi di Buchi nel vento? I testi che compongono Buchi nel vento sono comunque molto variegati fra di loro. Non sono certamente testi concilianti per quanto riguarda la loro costruzione. A volte partono come filastrocche per poi diventare altro. Non mi pare diano una grande sicurezza al traduttore.

«Premetto che non sono un traduttore di professione. Ho tradotto in passato libri per bambini e ragazzi con poesie, ma in rima. E ho tradotto per conto mio altre poesie di altro tipo. Detto ciò, uno come me si trova immediatamente a suo agio, fin troppo al sicuro, quando ha una forte disposizione, una forte architettura davanti. Apparentemente è più difficile, però ti permette di agire come se fossi davanti a un rompicapo, a un puzzle. Puoi quindi essere a tua volta architettonico per poter reinventare la casa. Invece con Buchi nel vento hai davanti le bolle di sapone, le bave di ragno, cioè qualcosa di molto esile.

Lo sforzo che ho dovuto fare è stato allora di provare a mantenere parte della musicalità originale, e al contempo farlo senza. Far dire ai testi più di quello che dicono con altri autori sarebbe stato perdonabile, qui avrebbe reso l’effetto bolla di sapone vano, avrei solidificato troppo. Quindi, in generale, ho tentato di non far dire a Friot più di quanto dice perché a mio avviso la sua grazia – “palazzeschiana” è un termine generico, esagerato, ma calzante – è molto impalpabile e va mantenuta. La mia difficoltà, come credo la difficoltà di ogni traduttore di Friot, è stata questa: mantenere nella traduzione l’impressione siano testi appena precipitati sulla pagina e ancora quasi allo stato liquido.»

Ti sei preso delle libertà nel tradurlo?

«Le solite che si prendono i traduttori. Ogni tanto, dove era più plausibile farlo ho cercato di non essere letterale nel far tornare qualcosa musicalmente o nel far tornare qualcosa dal punto di vista dell’immagine o, ancora, del sentimento. Una cosa che ho cercato di fare è di non calcare la mano. Quando c’è stata libertà si è mossa soprattutto in direzione della leggerezza. Trovare la parola equivalente, magari non precisa, però vicina all’etimo dell’immagine francese, a quel tipo di leggerezza. Quindi non tanto in direzione dello squadernare, dell’esplicare, del giocare virtuosisticamente e in modo un po’ gratuito con la lingua. Direi che per me è stato un lavoro di esercizio al freno. In inglese si direbbe “less is more”.»

Il libro è uscito in francia nel 2019 ed è stato pubblicato ora in Italia. Ci hai lavorato durante il lockdown, credo.

«Fra pre e post lockdown. Le correzioni le ho fatte in un periodo estremamente rarefatto di relazioni sociali. È stata una “cosa ecologica”, rispetto al lavoro che faccio.»

Intendi il silenzio intorno.

«Sì, perché ti ripulisce. Per me è anche molto riposante. Per le cose che mi sono scelto di fare, devo essere responsabile della traduzione. Per ottenere questo, ho bisogno di stare solo con me stesso.»

Risultato?

«Fra le altre cose che a Friot sia piaciuta la mia traduzione e che abbia accettato anche le libertà che mi son preso.»

Oltretutto Friot è un traduttore in francese di autori italiani.

«Conosce molto bene l’italiano. Per questo mi ha fatto ancora più piacere che sia stato contento e abbia apprezzato il mio lavoro e abbia concesso le libertà cui accennavo: perché lo ha fatto a ragion veduta.»

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